26 Maggio 2025

Per un anno ho vissuto in Macedonia (del Nord)

Elisa, Abu Dhabi • 0 commenti

Per un anno, nel 2020, ho vissuto in Macedonia.

Ci sono arrivata poche settimane prima che esplodesse il Covid, in un inverno gelido e buio che a me scaldava il cuore. Venivo da tre anni a Londra molto difficili, e da una grossa crisi di identità. Lasciavo alle spalle una città che amavo e una vita che non sentivo mia. Davanti a me un Paese che molti non sanno collocare sulla cartina geografica, vicino ma remoto, con un alfabeto diverso e una lingua sconosciuta.

In mano avevo un contratto di 12 mesi con l’ufficio locale di una ONG e un blocco di fogli, con cui disegnare cio che non sarei stata in grado di esprimere a parole. Pensavo davvero che la mia vita a Londra fosse ormai finita: sognavo orizzonti nuovi, strade meno battute, e soprattutto una carriera che avesse un significato piu profondo, esistenziale.

Skopje mi ha accolta con l’abbraccio del suo caos urbano: vecchi autobus rossi a due piani arrivati dall’Inghilterra dopo il terremoto del 1963, carretti trainati da asini, enormi palazzi brutalisti sovietici alternati a piccoli condomini con giardini, una pista ciclabile lungo il Vardar e una popolazione calorosa, nell’accoglienza come nel dibattito.

In Macedonia, molte persone sotto i 40 anni parlano bene inglese. Di difficoltà ad esprimermi ne ho avute molte meno di quello che pensavo, anche prima di imparare a decifrare il cirillico e a contare in albanese. Si, perché a Skopje si parlano due lingue: il macedone della popolazione slava e ortodossa, e l’albanese della minoranza musulmana. Li divide geograficamente il Vardar, il fiume che taglia in due la città: da un lato Macedonia Square, con le sue imponenti statue in granito nero e le fontane monumentali; dall’altro il vecchio bazaar circondato dalle moschee di mattoncini, il canto del muezzin che spezza il vento gelido, i tetti di lamiera visti dalle terrazze degli hotel di lusso.

I macedoni e gli albanesi hanno opinioni gli uni sugli altri, frutto di stereotipi maturati da generazioni di convivenza non proprio pacifici. Se passate di li, ascoltateli, cercando di non cedere alla tentazione di giudicare una dinamica complessa con la lente paternalistica di un occidente che anche qui ha fatto spesso danni. Imparerete a distinguerli dall’accento e dall’atteggiamento, e a trovarli simili nella cucina e nel patriottismo.

Il Covid si è abbattuto su di noi prima che finisse l’inverno. Ricordo l’ultima gita a Matka, con le nuvole che quasi toccavano gli alberi e qualche fiocco di neve solitario che galleggiava nel cielo immobile. Del resto di Marzo ricordo molto poco, perché ero ammalatissima e con un passaporto italiano, nessuno voleva visitarmi. Anche se non mettevo piede in italia da settimane, ero arrivata da Londra, e uno dei primissimi test Covid entrati in Macedonia era risultato negativo.

Il Covid spazza via molta della vita che mi stavo abituando a conoscere: niente serate a ballare al vecchio bazar, dove i ragazzini albanesi che mi avrebbero tampinata per strada non osavano venire a ballare in pista se c’era anche solo una ragazza, niente corsi di macedone e albanese, niente comunità di volontari e stagisti delle Nazioni Unite e delle Ambasciate, quasi tutti tornati in Europa con gli ultimi voli prima della chiusura delle frontiere. Rimaniamo io, due colleghi parigini, e la stagista dell’ambasciata francese, di Parigi anche lei.

Ecco, ho passato un anno in Macedonia e ne sono uscita parlando come una liceale della banlieue parigina. Quella stagista che avevo visto un paio di volte in discoteca ha finito per trasferirsi a casa mia per tre mesi e diventare la sola fonte di informazione su quello che succedeva fuori dalle mie quattro mura, nel periodo in cui il lockdown macedone significava poter uscire solo tra le cinque del mattino e le due del pomeriggio dal lunedi al venerdi.

Non abbiamo potuto uscire nel weekend fino a Giugno.

Come l’Italia, anche la Macedonia durante il Covid ha sviluppato una vita di cortile e di terrazza: fatta per lo piu di musica tamarra, grigliate in canottiera e sigarette silenziose. Con l’arrivo della primavera faccio amicizia con il vicino di sotto, la cui sveglia rumorosissima è impossibile da ignorare per me e sembra non avere nessun effetto su di lui. Quando aprono le strade di nuovo mi porta a conoscere i suoi nonni, a raccogliere le verdure nel loro orto, e in cima al Vodno, la montagna che sovrasta Skopje. Piango le prime lacrime da quelle notti di febbre a quaranta senza antibiotico, forse le mie prime vere lacrime di libertà.

Poi aprono le frontiere verso gli altri Paesi dei Balcani: io e la mia coinquilina prendiamo una macchina e guidiamo quasi sei ore fino a Belgrado. Urliamo di gioia quando vediamo l’insegna dell’Ikea, ci rimpinziamo di pad thai vegano, svaligiamo i negozi di seconda mano. La Skopje del 2020 era una capitale provinciale, in cui trovavo pane senza glutine solo in tre o quattro supermercati, e in cui lo shopping vintage non aveva ancora preso piede. Tornarci nel 2022 e rimpinzarmi di cibo vegano nei nuovi ristoranti aperti nel frattempo è stato un promemoria importante di quanto quello che portiamo nel cuore, piu che l’essenza di un luogo, è la fotografia dei pochi istanti che ci abbiamo passato dentro. Come i fiumi scorrono le città, e basta perderle di vista qualche mese perché i quartieri si evolvano, gli angoli cambino, e ci si senta spaesati come la prima volta in cui ci si ha messo piede.

L’estate macedone si svolge a Ohrid, sulle sponde del lago omonimo, tra feste in spiaggia, alcol e sigarette. Abbiamo dormito tra gli alberi, siamo saliti sulle montagne per cercare l’aria fredda e pranzato nei villaggi dove si arriva solo a piedi o con le capre. Uno dei giorni in cui ero andata a oziare a Matka, uno dei ragazzi del villaggio locale mi propone di affittarmi la casa di suo padre nella parte alta del canyon, dove si arriva solo in barca. Abbiamo cucinato pasta su un fornellino da campeggio portato in emergenza dal nostro amico macedone e guardato le stelle dalla canoa, circondate dal buio del canyon. Passo il mio compleanno al ristorante di un monastero ortodosso a mangiare le migliori verdure e ajvar della mia vita.

Due parole sull’ajvar bisogna spenderle: è forse il segreto meglio custodito dei balcani. Una crema di peperoni e melanzane, che si fa rigorosamente in casa, in un fine settimana di ottobre, centinaia di barattoli che nutriranno tutta la famiglia per i mesi successivi. Il solo ajvar che merita comprare al supermercato mi pare si chiami Mama’s: io lo trovavo nel negozio di cibo balcanico a West Hampstead. Se esistesse l’equivalente salato della Nutella, sarebbe l’ajvar, e creerebbe la stessa dipendenza.

Alla fine del mio contratto, complice l’incertezza da Covid, ho deciso di non cercare orizzonti diversi e strade meno battute: il mio cuore chiamava Londra, e l’ho assecondato.

Speravo di riuscire a mantenere un contatto con i Balcani per lavoro, ma non ci sono riuscita. Sono tornata in Macedonia nel 2021 per un mese e nel 2022 per una settimana, e poi la vita che stavo costruendo ha preso il sopravvento.

A volte mi chiedo dove sarei ora se il Covid non avesse tarpato le ali alla mia decisione di lasciare Londra. La Macedonia mi è restata nel cuore e anche un po’ nel cervello, perché se mi distraggo invece che parole in Arabo mi escono in Macedone anche qui. Ci ripenso con nostalgia e con tanta gratitudine, come ad un posto che mi ha dato molto di piu di quanto non sia riuscita ad assorbire, e a cui un giorno vorrei presentare la persona che sono diventata, anche grazie a lui.

Elisa, Abu Dhabi

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