4 Giugno 2025

La bellezza come forma di resistenza

Manuela Sydney • 0 commenti

Viviamo in un tempo dominato dalla necessità, dalla misurabilità, dalla performance, dall’utilità. In questo orizzonte sempre più tecnico e accelerato, l’arte e il pensiero umanistico sembrano elementi marginali, fuori asse, quasi anacronistici. Eppure è proprio oggi – nell’epoca della crisi ambientale, della fragilità democratica e dell’iperconnessione che sfilaccia i legami – che l’umanesimo torna ad essere urgente, necessario, politico.

C’è una forza singolare nella bellezza: non serve a nulla, e proprio per questo apre tutto. Non risponde a un bisogno primario, ma ad una sete originaria. Guardare un dipinto, ascoltare una fuga di Bach, sostare in silenzio davanti a una scultura, leggere Dostoevskij o Beckett non risolve nulla, e tuttavia cambia tutto. Perché educa lo sguardo, dilata il pensiero, risveglia la coscienza. Ci rende maggiormente capaci di abitare la complessità.

Nel mondo classico, il bello era inseparabile dal vero. La kalokagathia greca – l’unione di bellezza e bontà – era una via per comprendere l’armonia del cosmo e il posto dell’essere umano. Durante il Rinascimento, l’umanesimo fu il tentativo di riportare l’uomo al centro non come dominatore, ma come misura del possibile: il pensiero, il gesto artistico, l’invenzione erano atti di conoscenza, non decorazioni.

L’arte, dunque, non è mai stata solo estetica. È sempre stata gnoseologica. Una lente per interrogare il mondo, per dare forma a ciò che non ha ancora nome, per rendere visibile l’invisibile. Ed è proprio in questo che l’umanistica si distingue da ogni altro sapere: non descrive, ma trasforma. Non analizza, ma plasma. E lo fa attraverso il linguaggio, lo sguardo, il simbolo, la memoria.

In questo quadro, il teatro occupa, secondo il mio personale sentire, un posto essenziale. Non solo come linguaggio artistico, ma come dispositivo antropologico: è l’arte che più di ogni altra mette in scena l’umano nella sua interezza. È parola incarnata, gesto che si fa pensiero, rito collettivo. Il teatro è il luogo dove il tempo si sospende e la comunità si guarda allo specchio, non per consolarsi, ma per riconoscersi anche nelle sue fratture.

Fin dalle origini greche, il teatro ha agito come spazio politico e pedagogico. Le tragedie di Eschilo e di Sofocle non erano intrattenimento, ma indagine sul destino, sul potere, sulla giustizia. Quando Edipo si acceca, o Antigone sceglie di disobbedire, non assistiamo a una finzione, ma a una domanda lanciata nel corpo vivo della polis. È nel teatro che si impara a nominare il conflitto, a sostenere l’ambivalenza, a convivere con l’irrisolto. E in questo senso, il teatro è una delle forme più alte di umanesimo: perché educa alla complessità, alla compassione, al pensiero.

Non è un caso che ogni società che tende al controllo abbia tentato, in un modo o nell’altro, di marginalizzare o addomesticare il teatro. Perché il teatro non semplifica, non produce slogan. Esige presenza. Non solo quella dell’attore, ma dello spettatore, che non è mai passivo. Lo spettatore è chiamato a esserci, a sentire, a portare nel proprio corpo le domande che il palcoscenico solleva. Il teatro è fatica, rischio, esposizione. È tutto ciò che il mondo contemporaneo vorrebbe evitare.

Eppure, proprio oggi, c’è bisogno di teatro. C’è bisogno di corpi che parlano nel silenzio di sale buie, di parole che non si possono mettere in pausa, di incontri che non si possono replicare. In un mondo che si smaterializza, il teatro ci ancora alla nostra carne. Ci ricorda che pensare è anche un atto fisico, che la cultura è anche sudore, che l’empatia non si genera con un algoritmo.

I festival, i progetti nelle scuole, le compagnie indipendenti che resistono ai margini sono le nuove agorà. Non spettacoli per pochi, ma laboratori di cittadinanza. Perché ogni volta che qualcuno sale su un palco per raccontare una storia, anche se piccola, anche se imperfetta, crea uno spazio in cui la democrazia respira.

In un’epoca ossessionata dalla produttività e dalla tecnica, il sapere umanistico è fragile perché inutile. Ma questa inutilità è la sua forza. In un mondo dove ogni parola ha un prezzo, dove ogni attività è chiamata a “generare valore”, l’arte e la letteratura ricordano che il valore non si misura solo in termini economici. C’è un valore nell’inattuale, nel non immediatamente spendibile. Nell’inutile, appunto.

Le parole di Hannah Arendt risuonano più che mai: “L’arte è la forma più pura della durata nel tempo”.
Non perché resista all’usura, ma perché custodisce ciò che il tempo tende a disperdere: la memoria, la complessità, la bellezza non funzionale. In questo senso, ogni biblioteca, ogni museo, ogni scuola che insegni la filosofia o la poesia è un atto di resistenza. Non all’avanzare del futuro, ma alla sua disumanizzazione.

L’abbandono progressivo delle discipline umanistiche nelle scuole e nelle università – considerate spesso poco “utili” nel mercato del lavoro – racconta una deriva che è prima di tutto spirituale. Si forma alla logica, ma non alla responsabilità. Si addestra al calcolo, ma non al giudizio. E si dimentica che la tecnica, senza un’etica, è solo un meccanismo cieco. Senza l’umanesimo, il progresso rischia di diventare solo un perfezionamento della distruzione.

L’arte e la cultura umanistica non servono a “fuggire” dalla realtà, ma a penetrarla. A comprenderla nella sua totalità. A dar voce a ciò che resta ai margini: i silenzi, i dolori non detti, le storie taciute. A dare dignità anche a ciò che non produce. L’umanesimo, in fondo, è il luogo dove l’uomo impara a riconoscersi nell’altro, a costruire senso là dove c’è solo frammentazione. È la grammatica del vivere.

“Salverà il mondo”, si dice della bellezza. Forse no. Ma certamente può salvarci da un mondo inabitabile. Può insegnarci a vedere ciò che sta per sparire, a rimanere umani in un tempo che vorrebbe farci diventare solo funzioni.

Oggi più che mai, l’arte e la riflessione umanistica sono chiamate non a consolare, ma a inquietare. Non a ornare, ma a smuovere. La bellezza non è armonia perfetta, ma attrito, crepa, dissonanza che ci obbliga a pensare. È un’educazione dello sguardo che ci impedisce di restare indifferenti. Ed è in questo sguardo che possiamo ancora trovare, forse, una speranza.

Non quella ingenua che ignora il dolore, ma quella ostinata che sceglie, ogni giorno, di coltivare la complessità. Di abitare le domande. Di credere che l’umano non è solo ciò che produce, ma ciò che immagina, crea e ricorda.

Manuela, Sydney

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