Sono stata in Giappone. Poco più di una settimana. E no, non basta. Un viaggio che sognavo da tempo e che – anche se breve – mi ha lasciato dentro una voglia fortissima di tornarci. Di perdermi ancora tra i suoi contrasti perfetti: tra l’efficienza silenziosa di Tokyo e l’eleganza antica dei templi di Kyoto.
Siamo partiti in famiglia, con un programma stretto ma ricco: Tokyo, Kamakura e poi Kyoto. Una manciata di giorni in cui ho cercato di assorbire ogni dettaglio, ogni gesto, ogni piccola stranezza meravigliosa che solo il Giappone riesce a rendere armoniosa.
Questo non sarà un racconto di viaggio in senso classico, ma piuttosto una lista di cose che mi hanno colpita, fatta col cuore e con un sorriso.
Tokyo: ordine, caos e distributori automatici
Appena messa piede a Tokyo, ho avuto l’impressione di essere finita dentro un film di Wes Anderson girato da un ingegnere tedesco e prodotto da un team di monaci zen. Tutto funziona, tutto è ordinato, pulito, silenzioso, anche quando sei a Shibuya, l’incrocio pedonale più affollato del mondo, dove però nessuno spinge, nessuno urla, e tutti si muovono con una grazia da coreografia.
E poi ci sono loro: i distributori automatici. Ovunque. Vendono tutto, da bevande fredde a ramen caldo, calzini, ombrelli, e (giuro) cravatte. Una parte di me ha seriamente considerato di non entrare più nei negozi: vuoi mettere la comodità di prendere un tè verde frizzante alle tre del pomeriggio senza interazione umana? (Si scherza eh, o forse no?).
Cose che non capirò mai (ma mi piacciono lo stesso)
Il Giappone è un paese di contrasti. La spiritualità millenaria convive con la cultura kawaii. I templi convivono con i negozi di anime e manga, dove ho perso i miei figli per circa 45 minuti e ho temuto di doverli barattare con un peluche di Pikachu gigante.
Tutto è iper-organizzato eppure creativamente libero. Gli impiegati in giacca e cravatta convivono con ragazzi dai capelli rosa e outfit futuristici. E mentre mangi sushi preparato con la precisione di un orologiaio svizzero, senti una vecchietta augurarti buona fortuna pescando un foglietto sacro in un santuario Shinto.
Kyoto: la bellezza fatta città
Kyoto è come Tokyo, ma dopo un corso di meditazione. I ritmi sono più lenti, le strade più silenziose, l’atmosfera più contemplativa. E poi c’è Gion, il quartiere delle geishe, che sembra uscito da un sogno. Abbiamo alloggiato lì, circondati da casette di legno, lanterne rosse e ristorantini con tre posti a sedere (dove ti servono un ramen che ti fa rivalutare tutte le tue scelte di vita).
I templi di Kyoto meritano un paragrafo a parte. Diciamo solo che ho scattato più foto in tre giorni che nei primi due anni di vita di mia figlia. Ogni angolo è instagrammabile. Ogni giardino zen è una lezione di armonia. Ogni camminata è un invito a rallentare e respirare.
I giapponesi: l’arte della gentilezza
Parliamone. I giapponesi sono gentili in un modo che ti spiazza. Una gentilezza autentica, composta, discreta. Nessuno alza mai la voce. Nessuno perde la pazienza, nemmeno con i turisti che girano con la cartina al contrario e chiedono informazioni con un accento disperato. Ti aiutano, ti accompagnano, a volte ti fanno strada anche quando non gliel’hai chiesto. Mi sono sentita accolta, rispettata, mai un’intrusa.
E poi c’è la questione dell’educazione collettiva. Niente spazzatura in giro, niente clacson, niente lamentele. In metro, un silenzio che mi ha messo quasi a disagio. La gente legge, dorme, o fissa il vuoto con una serenità che mi ha fatto invidia.
Le piccole stranezze che fanno grande il Giappone
Ci sono cose che solo in Giappone puoi vedere senza battere ciglio:
Le toilette con 27 tasti. Funzioni che vanno dal riscaldamento del sedile alla musica d’ambiente. Non sapevo se fare pipì o ballare un lento.
I bambini che vanno a scuola da soli. A 6 anni. Con lo zainetto grande quanto loro, attraversano Tokyo come se niente fosse. E nessuno li rapisce. Nessuno li perde. Nessuno chiama i servizi sociali. Lo vedo anche a Sydney eh, ma ancora non ci faccio pace.
I segnali audio per i non vedenti agli incroci che suonano come una colonna sonora di Miyazaki. Poesia urbana. Qui in Australia un cicalio bello potente che quasi ti obbliga ad attraversare pure se non devi.
Le fragole perfette che costano come un weekend in Sardegna. E che, va detto, sanno DAVVERO di fragola.
Tornerò. Anche solo per sbagliare di nuovo con le bacchette
Una settimana in Giappone non è abbastanza. Lo so, lo sanno i miei figli, lo sa anche il mio portafoglio che già piange al pensiero del prossimo viaggio. Ma è bastata per capire una cosa: voglio tornarci. Per vedere bene il Monte Fuji, che si è mostrato timidamente dal finestrino del treno nel viaggio tra Tokyo e Kyoto. Per dormire in un ryokan immerso nei ciliegi. Per provare un onsen (anche se l’idea di doverci entrare nuda la devo digerire).
E voglio tornarci perché il Giappone è quel posto raro dove tutto sembra andare come dovrebbe. Dove la modernità non cancella la tradizione, dove la bellezza non è ostentata ma curata con amore. Un paese che non si mostra, si lascia scoprire. A piccoli passi. O, nel mio caso, a passo di madre con due figli affamati e con mille cose da vedere nella loro lista.
Alla prossima, Giappone. Stavolta per un po’ di più. Magari due settimane. Dai, almeno.