“Gli antropologi credono che ci si debba immergere in una cultura sconosciuta per comprendere davvero la propria, e diventare esseri umani migliori. Io non riesco nemmeno a immaginare dove sarei adesso, se non avessi avuto quella possibilità.”
L’ho letta così, per caso, in un post di un’amica expat che ora vive alle Hawaii. Una di quelle frasi che ti fermano. Che ti costringono a tornare indietro, a rileggere. E poi a pensare: “Ecco. È proprio così.”
Perché è esattamente quello che è successo a me. O meglio: è quello che ho vissuto senza riuscire a dargli un nome. Finché qualcuno, finalmente, ha trovato le parole giuste.
Prima di partire, c’ero io
C’era la ragazza sarda, cresciuta tra il mare e le risate della famiglia, tra cene interminabili e il vocabolario delle emozioni detto a metà. Avevo le mie certezze: la famiglia, i ritmi italiani, il modo giusto di educare i figli (che è sempre quello che hai visto fare), il mio stile, le mie convinzioni.
Poi, un giorno, sono partita.
E no, non per una vacanza lunga. Sono partita per cambiare vita. Non una volta sola: l’ho fatto sette volte, in sette paesi diversi. Ogni volta pensavo di sapere chi ero. Ogni volta ho scoperto che non era proprio così.
Il primo vero impatto con una cultura molto diversa è stato – per usare un termine tecnico – uno schiaffone. Di quelli che ti fanno girare la testa, ma ti svegliano.
Mi ricordo l’Arabia Saudita. Ricordo il senso di spaesamento, l’idea di dover ricalibrare ogni gesto, ogni parola, ogni abitudine. Ricordo la frustrazione, ma anche la meraviglia. Il silenzio che a volte ti costringe ad ascoltare meglio. E il momento in cui capisci che non sei lì per spiegare, ma per imparare.
In quel momento inizi a togliere. Strati di giudizio. Di convinzioni. Di automatismi. E inizi a guardare.
Vivere in una cultura diversa è un esercizio di smontaggio continuo. Non si tratta solo di imparare usi e costumi. Si tratta di lasciar andare l’idea che il tuo modo sia quello giusto.
In Perù, ho imparato il senso dell’attesa. Che non è tempo perso, ma uno spazio che si riempie di altro. In Australia, ho capito che la gentilezza può essere istituzionalizzata e che il “no worries” non è solo un modo di dire, è una filosofia di vita. In Serbia, Romania e Bulgaria, ho scoperto che l’ospitalità può essere concreta, spontanea, quasi ruvida a volte – ma sempre autentica. Che il calore non ha bisogno di grandi parole, ma si manifesta in un bicchiere offerto, in un piatto condiviso, in una porta aperta senza troppe domande.
E così, pezzo dopo pezzo, inizi a guardare anche il tuo essere italiana con occhi nuovi. Ti rendi conto che quel modo di “parlare forte”, di finire le frasi agli altri, di arrabbiarti se la pasta scuoce… è solo una versione del mondo, non la versione.
Quando lasci una cultura e ne abiti un’altra, non sei mai più la stessa. Ma non diventi nemmeno “come loro”. Resti in bilico. Un po’ qui, un po’ là.
Alla lunga impari a stare in quell’equilibrio. Diventi un essere ibrido: più flessibile, più attento, più curioso. Più umano, sì. Perché inizi a vedere quanto siamo tutti diversi, eppure tutti in cerca delle stesse cose: amore, sicurezza, appartenenza.
E poi ci sono loro: i miei figli. Che sono italiani, sì, ma anche no. Che parlano più lingue, mescolano espressioni, mangiano sushi con le mani e panettone a Natale. Che non sanno bene “da dove sono”, ma che si sentono a casa in più posti.
Crescere figli expat è come piantare alberi con le radici in movimento. Ma è anche l’occasione per insegnare loro qualcosa di prezioso: che il mondo è pieno di modi di essere, e che nessuno vale meno dell’altro.
E poi, diciamolo, a volte imparano loro da te, e a volte sei tu a doverli rincorrere. Loro capiscono subito le regole del gioco. Tu, spesso, arranchi con il dizionario in mano e la faccia confusa.
Ogni volta che preparo una valigia, ogni volta che cerco casa in una nuova città, ogni volta che mi presento dicendo “sono italiana, ma…” mi accorgo che probabilmente non sarei mai la donna, la madre, la professionista che sono se fossi rimasta ferma.
Non si tratta solo di vivere altrove. Si tratta di vivere altro. Di vedere sé stessi allo specchio di altre culture. E capire, finalmente, da dove vieni – ma anche dove puoi andare.
Non so se sono una persona migliore. Ma sono sicuramente una persona che si fa più domande. Che giudica meno. Che ascolta di più. E che, ogni tanto, ha ancora voglia di disfare tutto e ripartire da capo.
Perché, in fondo, è così che si cresce: quando smetti di appartenere a un solo posto, e inizi ad appartenere un po’ di più a te stessa.
Nadia
2 commenti
Nadia
Grazie mille Roberta!
Roberta
Bellissimo post e parole sante!!