Ho cononsciuto Marika, Drammarika su Instagram, e ho pensato che la sua storia andava raccontata anche qui. Perché spesso si incontrano storie di donne che vivono all’estero al seguito di mariti, o dopo aver fatto licei internazionali, o grazie al supporto della famiglia. Molto piú raro é sentire storie come quella di Marika, di una libertà conquistata con fatica: quella di liberarsi delle convizioni limitanti che ci ha imposto il nostro contesto di nascita. Il suo post Storia del mio corredo rientra di diritto nella lista dei 10 expat post piu belli che io abbia mai letto, e vi consiglio di leggerlo anche voi, prima o dopo questa intervista.
Trovo la storia di Marika un manifesto alla determinazione femminile, e spero sia di ispirazione a qualche ragazza o donna che sogna orizzonti diversi, ma non sa come raggiungerli.
Elisa, Abu Dhabi
Ciao Marika. Sei stata la prima italiana a laurearsi in letteratura olandese all’Università di Utrecht, eppure sei crescita in un contesto che non ti ha incoraggiata né a studiare né ad andare all’estero: come è nato questo tuo sogno? Come ti sei approcciata alle lingue straniere prima di andare all’università? Che risorse ti hanno aiutato ad impararle?
Sono nata e cresciuta in un paesino incastrato tra la provincia di Caserta e quella di Napoli (la famosa ‘terra dei fuochi’), in un contesto piuttosto tradizionalista, patriarcale e, almeno di facciata, cattolico. Ero una bambina molto curiosa ed è a questa curiosità che devo tutto. Facevo troppe domande, spesso mettendo gli adulti di fronte alle ipocrisie del loro modo di vivere, di pensare e di agire.
Mi si intimava spesso di ‘stare zitta’ e alle mie domande sul perché dovessi fare per forza certe cose o non potessi farne altre, mi sentivo spesso rispondere che era ‘perché sí femmena”.
Quando alle elementari mi capitò tra le mani la prima Antologia di racconti, quella che avremmo dovuto leggere durante tutto l’anno scolastico, io la divorai in un paio di pomeriggi. Avevo scoperto la lettura, ma in casa mia non c’erano libri. La mia vicina di casa dovette aver intuito qualcosa, così un pomeriggio mi mise tra le mani la sua copia de I Malavoglia di Verga.
La lessi capendoci pochissimo della trama, ma era avvenuta una piccola magia: quel libro mi aveva portata in Sicilia. La mia vicina mi aveva regalato il primo viaggio della mia vita e per tutta la mia infanzia non feci che ricercare altri viaggi, prima nei libri e poi, più tardi, nella musica. Gli Oasis e i Green Day furono i miei insegnanti di inglese (che per un po’ devo aver parlato in un orrendo e assurdo ibrido Californiano-Manchesteriano).
Quando scoprii l’opzione ‘guarda programma in lingua originale’ su un vecchio decoder Sky (o forse si chiamava ancora ‘Tele+’…) non volli guardare mai più qualcosa in italiano. Avevo capito che, se avessi voluto andare via, l’inglese sarebbe stata la prima cosa da mettere in valigia. I dischi e i libri mi facevano sentire capita e piantavano nella mia immaginazione i primi semi di una vita altrove, in un contesto dove sarei potuta essere davvero io e dove avrei potuto fare tutte le domande che volevo.
Hai parlato della relazione difficile con la tua famiglia che si aspettava da te una vita tradizionale da moglie e madre cattolica. Che rapporto hai avuto invece coi tuoi coetanei italiani da piccola?
Da piccola ero spesso in disparte e avevo molta difficoltà a stringere amicizia, forse semplicemente perché non avevo granché in comune con i miei coetanei. Alle medie fui presa parecchio di mira, sia perché ero in sovrappeso, sia per i miei interessi atipici. Il tutto è spesso sfociato in atti di bullismo nei miei confronti. Non ho avuto una bella infanzia sotto questo punto di vista e mi sentivo molto sola. Più ore passavo da sola in camera mia, più avevo la sensazione che tutti intorno a me parlassero una lingua diversa.
Occasionalmente mi facevo qualche nuova amica ma le differenze di vedute finivano, prima o poi, per separarci. Loro erano più integrate di me nella vita del nostro piccolo paese, si vestivano alla moda e si prendevano le prime cotte per i ragazzini del paese, sognando abiti bianchi e neonati. Io mi sentivo come in una specie di limbo, in trepidante attesa di una vita diversa che temevo non sarebbe mai arrivata, troppo distratta e insofferente per potermi impegnare a trovare un posto nella comunità dove ero nata.
Ad oggi, non ho contatti con nessun coetaneo del mio paese di origine e un po’ mi dispiace. Il mio piccolo paese di provincia fa parte, nel bene e nel male, della mia storia.
C’è qualcuno al di fuori della tua famiglia che è stato per te un mentore o una ispirazione nel decidere di andare contro corrente?
Se avessi avuto un mentore, qualcuno da cui prendere esempio, credo sarebbe stato tutto molto più semplice.
Quello che ha reso la mia infanzia e la mia adolescenza così complessi, in fondo, è stato proprio il fatto di non avere intorno a me nessun punto di riferimento che mi convincesse fino in fondo.
Nel processo di costruzione della mia identità ho dovuto identificare, sollevare e trasportare da sola praticamente ogni mattone. È stato un processo epico e snervante, soddisfacente ma tremendamente faticoso.
Dopo il liceo ti sei iscritta a lingue all’università di Napoli e hai fatto l’Erasmus in Olanda. Come hai scelto questa destinazione? Cosa ti ha spinto ed incuriosito ad andare lì, fra tutti i posti?
Ho scelto, d’istinto, la facoltà di lingue presso L’Orientale di Napoli. Non sapevo bene cosa avrei fatto da grande, ma era chiaro, a quel punto, che qualsiasi cosa avrei fatto, avrei cercato di farla lontano dal mio luogo di nascita.
Speravo che la facoltà di lingue mi aiutasse in questo senso. Allo studio dell’inglese ho affiancato quello della lingua olandese. Volevo fare una scelta meno comune (all’epoca c’erano meno di 10 studenti che studiavano olandese), volevo ‘un asso nella manica’ che, speravo, mi desse qualche opportunità in più (cosa che poi è successa davvero).
Non avevo nessun legame con l’Olanda, ma mi affascinavano le lingue germaniche.Per perfezionare il mio olandese volevo andare in Olanda, ma i miei non erano assolutamente d’accordo con il mio espatrio.
Feci la domanda per l’Erasmus di nascosto e solo una volta risultata vincitrice dissi ai miei che sarei andata a Utrecht per sei mesi, mentendo a mio padre sul fatto che andare all’estero fosse ‘obbligatorio’ per il mio corso di studi.
Partii con pochissimi spicci e una valigia semivuota, ma con il cuore colmo di felicità. Al gate, rigirandomi il biglietto tra le mani, pensai che avrei fatto qualsiasi cosa affinché quello diventasse un volo di sola andata e non soltanto una parentesi di sei mesi.
Hai sperato di andartene per anni e ci sei riuscita “grazie a una scusa”: cosa ha significato per la giovane Marika riuscire a realizzare quel sogno?
Essere riuscita ad andare via ha significato poter crescere e diventare adulta assecondando i miei valori, le mie idee, le mie passioni e il mio carattere, ha significato sbagliare e poter prendere decisioni senza gli occhi puntati addosso di chi ti giudica, ha significato diventare esattamente chi volevo essere senza seguire regole ai miei occhi ipocrite o insensate.
Andare via mi ha regalato l’avventura pazzesca di cercare da sola qualcosa in cui credere senza che me lo imponesse nessuno, la libertà di poter fare tutte le domande che voglio e di mettere in discussione qualsiasi cosa. Mi ha regalato un mondo intero da esplorare, persone e culture da conoscere, tutte meravigliosamente diverse da me.
Come è stato il passaggio da studente a lavoratrice adulta?
Dopo aver finito la specialistica a Utrecht, che ho potuto seguire grazie a una borsa di studio della Taalunie (ente governativo per lo studio della lingua olandese), la mia priorità era la stabilità economica: non ho avuto aiuti alle spalle e volevo assolutamente assecondare il mio desiderio di viaggiare e vedere il mondo.
Non sono finita subito a fare un lavoro che mi piacesse, anzi: per 6 anni ho fatto un lavoro che non c’entrava assolutamente nulla con i miei studi di letteratura e linguistica e che non mi appassionava particolarmente.
Seppur contenta della stabilità raggiunta e di tutti i viaggi che ho potuto fare, il passaggio al mondo del lavoro si era rivelato alquanto complesso e mi aveva lasciato un po’ l’amaro in bocca. Trovare qualcosa nel mio campo sembrava impossibile.
Per sfruttare comunque le mie conoscenze e fare qualcosa che mi piacesse davvero, ho sempre insegnato lingua olandese agli italiani d’Olanda, in parallelo al mio lavoro d’ufficio. Ho cominciato come volontaria presso la comunità italiana di Utrecht, poi ho aperto la mia piccola scuola di olandese, Instadutch.Intanto ho abbandonato quel lavoro che non mi appassionava e questo autunno comincerò finalmente a lavorare in ambito culturale, dove potrò sfruttare le conoscenze e le abilità acquisite durante i miei studi.
Quando ti sei sentita davvero a casa in Olanda?
Mi sono sentita a mio agio in Olanda dal primo giorno, ma la sento come casa ancora di più quando sono via. Nella vita quotidiana sono pochi i momenti in cui mi soffermo sulla sensazione di comfort, di sentirmi nel mio posto, ma quando sto via per qualche giorno cominciano a mancarmi le strade in cui sono diventata grande, le nuvole che si muovono rapide nel cielo, le luci delle case che si riflettono nei canali, il Duomo di Utrecht illuminato in una piazza deserta. Ripenso a queste piccole cose e mi sento immensamente grata per tutto quello che l’Olanda mi ha dato in questi 12 anni.
Cosa vorresti dire a una ragazza giovane che come te, non si ritrova nei valori e nel contesto dell’Italia rurale e sogna un mondo diverso e orizzonti più larghi?
Le dire di cercare di non farsi assorbire o cambiare dal contesto, anche se le persone intorno a lei le dicono che è pazza, che parla troppo o che è strana. Le direi anche di continuare a lavorare su sé stessa, studiare e migliorarsi. La fortuna aiuta, ma bisogna farsi trovare pronti.
Sei partita alla ricerca di un futuro che la tua famiglia non riusciva a immaginare per te: come è oggi la tua relazione con le tue origini, e con la mentalità del contesto in cui sei nata?
Prima tendevo a biasimare le persone per il loro comportamento nei miei confronti, per le imposizioni, le risposte taciute o date a metà.
Allontanarmi mi ha regalato una nuova visuale e mi ha permesso di capire meglio il funzionamento e gli equilibri della società dalla quale provengo. Sebbene non approvi tante cose, non sono più arrabbiata come lo ero un tempo.
Andarmene ha migliorato di molto il rapporto con le mie origini e anche con la mia famiglia che oggi, sotto molti aspetti, è una famiglia completamente diversa. Ho dovuto abbattere tanti muri e sfondare porte che sembravano indistruttibili, ma ne è valsa la pena. Ho imparato tanto io e hanno imparato tanto anche loro. Nonostante certe dinamiche continuino ad essere difficili da gestire, la mia famiglia è indubbiamente orgogliosa di quello che sono riuscita a costruire – sono persino venuti a trovarmi qualche volta, loro che al massimo erano stati una o due volte fuori regione e mai fuori dall’Italia.
Marika, Utrecht
Trovate Marika anche sul suo blog, Ik ben Marika, e su Instagram.