Trasferirmi ad Abu Dhabi ha segnato anche la fine del mio percorso da nomade digitale. Ho lavorato da remoto, a periodi alterni, da quando mi sono laureata nel 2015. Il mio primo lavoro, in realtà, è stato come ragazza alla pari in una Dubai meno trafficata e più economica di quella che oggi visito nei weekend. Questa seconda esperienza in terra straniera mi ha regalato una prima percezione della differenza tra la vita all’estero in una comunità studentesca, come avevo appena vissuto in Francia, e quella di una famiglia in un contesto expat. E mi ha anche regalato la consapevolezza che il sogno di una casa e di una famiglia miei erano lontani: prima volevo fare altro.
Ho letto il post di Monica sulla sua esperienza con il lavoro da remoto attraverso vari espatri e genitorialita, e ho deciso di raccontarvi anche la mia.
Parte uno: perche ho iniziato a lavorare freelance?
Che lavoro fare? Con la mia laurea, non avevo una prospettiva lavorativa ben definita. Ecco quindi che realizzare progetti freelance si è rivelato un ottimo modo per sperimentare diverse opportunità e scoprire cosa mi piaceva. Ho scritto centinaia di articoli su viaggi e attività culturali per bambini. Ho sviluppato la strategia di marketing per il lancio di una piccola azienda di gioielli. Ho iniziato a scrivere sceneggiature per cortometraggi.
E nel frattempo, sperimentavo la libertà di lavorare dove volevo. Avevo come base una Roma che non mi piaceva, da cui ho preso centinaia di treni per visitare luoghi vicini e lontani, con il mio fido computer nello zaino. Ho passato weekend in montagna con i miei nonni, a guardare le foglie colorarsi di rosso e giallo. Ho visto il mare Adriatico farsi freddo e spumeggiante in autunno, frizzante e tiepido con la primavera. Ho lavorato dai bar del Quintana Roo, prima di inoltrarmi nella giungla, mangiando in chioschi dispersi lungo strade sterrate. Sono andata a trovare mia sorella a Buenos Aires, ho guidato sul passo più alto delle Americhe per andare in Cile, inviato articoli con i piedi immersi in un Pacifico gelato a sud, altrettanto gelato a nord sulle spiagge californiane, dopo un road trip sulla Route 1 in gennaio.
Ho aperto il mio blog di viaggi senza glutine che mi ha portata in giro ad assaggiare cibi e a conoscere persone che non pensavo avrebbero mai saputo il mio nome.
Sono stata in Australia come reporter di viaggio; mi hanno offerto cene stellate e prodotti con cui inventare ricette che preparavo nella cucina dei miei genitori, tra un viaggio e l’altro. Era una vita con poca sicurezza economica, più idee nella bucket list che soldi per metterle in pratica, e grandi difficoltà a capire come crescere professionalmente, come arrivare a un lavoro che mi soddisfacesse. Era ora di trovare progetti che mi permettessero di avere una visione più ampia.
Così è arrivata Londra, e la scelta di dedicarmi al cinema in pianta stabile. Ricordo i viaggi alle quattro del mattino sotto la neve per raggiungere il set entro le sei. I progetti all’estero, come quel documentario in Sierra Leone, dove la regista ha conosciuto il suo futuro marito e, proprio un mese fa, mi ha inviato le foto della loro prima figlia. Quello in Colombia, sui cartelli della droga, in cui il protagonista si sparò prima della fine delle riprese. Quello in Sicilia, dove mi sono fatta adottare dal villaggio che ci ha ospitati per tre mesi, e ho trovato un amico per la vita. Quello a Stoke-On-Trent, dove partivo da Londra con le valigie piene di cibo perché nei supermercati locali non trovavo quasi nulla di sano. E tra una ripresa e l’altra, la libertà di viaggiare nelle settimane in cui non era necessario essere sul set.
Primo intermezzo: lavorare da dipendente per avere una routine.
Quella che mi ero costruita era vita piu congeniale, ma che comportava vari stress economici: fra tutti, dover versare caparre allucinanti per una stanza in affitto, o provare i miei guadagni per anni pur di avere un mutuo.
Ma a chiamarmi davvero fuori dalla mia prima avventura di nomade digitale e stata l’idea di avere una routine giornaliera e settimanale. Finire di lavorare alle cinque. Poter fare sport. Avere amici da vedere regolarmente, un manager che mi guidasse nel mio sviluppo professionale, un ufficio con colleghi con cui scambiare quattro chiacchiere. Pronti? Via. Sono durata sei mesi, prima di rendermi conto che era ora di salutare il cinema e di dedicarmi a una carriera più in linea con i miei valori.
Parte due: il Covid, e il lavoro da dipendente, ma da remoto
Quando sono atterrata in Macedonia nel 2019, il lavoro da remoto come dipendente era ancora un’utopia. Ero riuscita a ottenerlo con moltissima fatica, a giovedì alternati, nel mio primo lavoro a Londra, per poter andare al mio corso intensivo di Arabo alle 18, vicino a casa mia. Me lo concessero, roteando gli occhi, quando mi presi una forte febbre a fine febbraio 2020. Circa due giorni dopo, annunciarono i primi casi di Covid in Italia, dove non andavo da gennaio. Ma bastava il mio passaporto per convincere i miei colleghi che fosse meglio che rimanessi a casa da lì in poi.
E così ho fatto. Da febbraio 2020 a settembre 2023, ho lavorato prevalentemente come dipendente, ma da remoto. Nell’ultimo anno a Londra, avevo la possibilità di andare in ufficio quando volevo, ma finivo per andarci solo quando dovevo insegnare yoga o per vedere i colleghi. L’appartamento che avevo affittato con i miei amici era perfettamente organizzato affinché lavorassimo tutti da casa, e invitavamo spesso altre persone, così che il salotto diventava un WeWork improvvisato. Si cucinava insieme, e tutti imparavamo qualcosa sul lavoro degli altri.
Dopo anni a sentire parlare della small talk in ufficio, della difficolta di vedere gli amici con un lavoro full time, ho vissuto due anni d’oro in cui i miei colleghi erano le persone che mi ero scelta, e avevo la sicurezza economica di un lavoro da dipendente.
E una volta aperte le frontiere, non sono mancati i viaggi. Sia nel 2021 che nel 2022, ho potuto trascorrere tre mesi nei Balcani, continuando a studiare le problematiche che avevo toccato con mano durante il mio lavoro sul campo. Non ho mai avuto problemi a fare weekend lunghi in Italia che mi permettessero di passare piu tempo con la mia famiglia prima e dopo il lavoro. Ogni volta che tornavo a Londra, avevo una routine che adoravo, tra nuoto la mattina, yoga la sera e la possibilità di incastrare impegni e visite durante la giornata grazie all’orario flessibile.
Io di una base ne ho avuto bisogno. Ho stima di chi riesce davvero a mollare tutto e a vivere con una valigia: io ho preferito la sicurezza di quattro mura, che mi hanno accolta tra un viaggio e l’altro, in cui ritirarmi dopo una delusione, in cui ritrovare i miei libri e i miei quaderni.
Parte tre: il futuro che vorrei
Per me, gli ultimi due anni sono stati l’esperienza lavorativa piu positiva in termini di equilibrio tra uno stipendio fisso e la possibilita di costruirmi una quotidianita su misura.
Forse è questa flessibilità totale, questa comunione di amorosi sensi, che è più difficile lasciare indietro in questa nuova avventura mediorientale. Ho ritrovato l’ufficio tre volte a settimana, il completo, la chiacchiera superficiale con i colleghi, e perso quell’equilibrio tra lavoro e vita privata che adoravo. Ma so che è una scelta temporanea.
Il prossimo passo lo immagino di nuovo verso l’Europa, che sento casa nonostante i suoi difetti e limiti. Ma anche verso un lavoro che mi permetta di nuovo di avere una flessibilità totale su orari e luoghi di lavoro. Sono contenta di essere qui, di essermi data l’opportunità di crescere in un contesto diverso, sia come Paese che come azienda. Ma ho ben chiaro che questo è un passo in cui scelgo un compromesso temporaneo sulla mia qualità di vita, per poi tornare a un equilibrio migliore. E so che questo equilibrio sarà comunque da ritrovare: questa volta non come giovane nomade digitale ventenne, ma come moglie e mamma trentenne.
Elisa, Abu Dhabi
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