Marzo 2023. Giorno tre di Ramadan. La sveglia per il suhour, il pasto prima dell’alba, suona verso le quattro e mezza: per me che di solito mi alzo alle quattro e tre quarti, significa per una volta cambiare a malapena la mia routine mattutina: niente sport appena alzata ma una colazione proteica. Perché dopo mi aspettano 13 ore senza cibo e acqua, ma anche senza sigarette, alcohol, cattivi pensieri o sesso, finche il sole non tramonterà dietro l’orizzonte del Pacifico.
Il mio primo Ramadan è stato a Londra, in giugno. Digiuno dalle tre del mattino alle nove di sera, notti brevissime passate a tavola con la mia famiglia del cuore, prendere sonno solamente quando il cielo comincia a schiarirsi. Se ci penso, quello è stato il primo anno in cui ho ricominciato a mettere assieme i pezzi della mia spiritualità fusion, e a chiedermi come integrarli assieme.
Come molti italiani, sono cresciuta in una famiglia cattolica tradizionale. Non avevo nemmeno la zia hippie che era stata in viaggio in India negli anni Settanta. Eppure io le Chiese non le ho mai sentite come un luogo dove aprire il mio cuore. Più studiavo la Storia e più la religione mi sembrava qualcosa di transazionale, una lotta al potere tramite l’ultima frontiera del purismo. Cosi ho continuato a camminare. E sono atterrata in Francia, in un quartiere popolare a maggioranza musulmana, dove ho smesso di mangiare carne e iniziato a fare yoga. E senza saperlo, ho seminato tre semi che avrebbero germogliato, rigogliosissimi, negli anni successivi.
Lo yoga, in realtà, era gia parte della mia vita da anni. Il povero Jones, insegnante di mia madre, accolse me e altre due liceali nella palestra dove insegnava, nonostante noi passassimo la maggior parte del nostro tempo a ridere. In Francia successero un paio di cose brutte, una dietro l’altra. Tra i tanti modi in cui avrei potuto scegliere di disciplinare il mio corpo, lo yoga si è fatto strada naturalmente, perché ci ero già esposta, e grazie a Instagram della prima ora.
In quel periodo successero un paio di cose brutte, una dietro l’altra. E cosi ho incontrato lo yoga più fisico, e la voglia di sfidare me stessa. Ci ho messo anni di Ashtanga ogni giorno, Vinyasa complessi, e una ossessione per gli equilibri e la flessibilità a guardare oltre la pratica fisica dello yoga. In questa ossessione per la complessità fisica, ho incontrato lei: la disciplina. E tramite la disciplina fisica, ho aperto la porta a quella spirituale: ho iniziato a meditare, a recitare mantra, e a farne una abitudine quotidiana, spesso alzandomi alle cinque del mattino. E per i giochi del destino sono finita a insegnare proprio il mio vecchio vinyasa nella mia azienda, per accompagnare chi, come la me di dieci anni fa, scopre lo yoga come disciplina del corpo. Perché una grande parte della pratica yoga e proprio il restituire alla comunità mondiale gli insegnamenti che ti hanno aiutato.
Jones, il mio primo maestro di yoga, mi disse una volta che se continuavo la via dello yoga avrei smesso di mangiare carne. Io, che ero dipendente dal prosciutto crudo e dal sushi, ho riso. Oggi rido ancora, quando ci penso, perche la verità è che siamo tutti uguali e che nel contempo odiamo sentircelo dire.
La verità è che ho smesso di mangiare carne perché non sapevo come comprarla in francese.
Sul serio: messa davanti al boucher di Mulhouse, non avevo idea di cosa chiedere, che tagli si mangiassero e come, e ho deciso semplicemente di smettere di comprare carne. Di pesce ne arrivava poco ed era molto costoso per le mie tasche di studentessa, e così ho mosso i primi passi verso l’esplorazione del vegetarianesimo: grazie a un contesto in cui mi era più facile essere vegetariana che mangiare animali.
Navigare i mesi di transizione non è stato facile: come mi comporto al ristorante? Come ne parlo ad amici e famigliari? E se sono su un’isola remota dove ci sono solo patate e pesce? A venirmi incontro è stata la comunità musulmana, che mi ha parlato del loro rapporto con la carne halal. Comincia a mangiare come credi a casa tua, poi trovi il tuo equilibrio col resto. Ognuno dei miei amici aveva un approccio alla alimentazione halal diverso: alcuni non si facevano problemi a mangiare carne non halal fuori casa, altri preferivano evitare. E in questo dinamismo ho iniziato a disegnare i confini della mia etica vegana.
Gli anni mi hanno richiesto e permesso di evolvere il mio approccio al veganesimo. Lo scenario della famosa isola deserta mi è capitato -più volte- per lavoro. Scrivo questo post da un villaggio del Choco, il dipartimento più isolato della Colombia, che si raggiunge solo in aereo o in barca, dove le verdure arrivano una volta alla settimana con una nave cargo nella città principale e vengono distribuite con calma nei villaggi circostanti. Non si tratta solo di assicurarmi di mangiare sano o di sostenere la fragile economia locale, ma anche di costruire un rapporto di fiducia con le comunità che incontro condividendo la tavola e il cibo con loro, senza fare l’ospite bianca che si sente superiore agli usi locali. Perché la mia origine europea simboleggia, in queste terre, il disprezzo sostanziale per le abitudini delle persone con pelle nera dei conquistadores, che li chiamavano “mala razza” e consideravano inferiori. Se pensate che sia storia passata, vi sbagliate: quasi tutta la classe dirigente colombiana è bianca, e gli indigeni e i neri formano la classe sociale più povera e discriminata.
Il veganesimo, nello yoga, si lega al principio della ahimsa, non-violenza. E la filosofia vegana si basa sul fatto di non causare sofferenza agli animali per quanto possibile. Io il mio possibile lo faccio tutti i giorni, e negli anni ho imparato a capire che resto vegana anche quando non mangio vegano.
E l’Islam… beh, quella è stata una sorpresa. Non mi sono mai considerata religiosa, nonostante il contesto cattolico in cui sono cresciuta e quello musulmano che mi ha accolta in espatrio. Eppure il digiuno durante il mese di Ramadan ha aperto una porta di cui credevo di non avere la chiave. Mi ha fatto ritrovare quella disciplina che ho scoperto nello yoga e che mi parla di come superare i miei limiti, le mie contraddizioni e le mie paure.
La mia spiritualità fusion ha il sapore delle persone e delle culture che hanno segnato la mia vita. Ha la voce di Jones che mi spiega gli archi e la meditazione, il sapore della ratatouille che il mio ex ha preparato per il nostro primo Iftar, la musicalità dolce dei mantra che canto il venerdì sera assieme al mio sangat, la mia comunità.
E cosi oggi insegno yoga, durante il mese di Ramadan. Rompo il digiuno con datteri e latte di mandorla. E il cibo sulla mia tavola e per la maggior parte vegano, leggero, nutriente e poco processato, come raccomanda la filosofia yogica. Non escludo, negli anni, di aggiungere altri elementi, pratiche che oggi non sento affini, e di riscoprire quelle che negli anni ho abbandonato. Perché la spiritualità e un viaggio che dura una vita, e la mia, in fondo, e cominciata da poco.
E la vostra spiritualità, come si e evoluta in espatrio?
Elisa, Abu Dhabi
PS: questo post e stato scritto nel 2023. Lo pubblico oggi, a distanza di un anno, durante un Ramadan ben diverso, in cui la mia pratica principale è quella di dedicarmi al mio bebe. Durante le sveglie notturne guardo fuori dalla finestra per cercare le luci che si accendono nelle case in cui si consuma il suhoor. E mi sento parte di un disegno piu grande, che non vedo, ma che mi da fiducia.