Espatrio

Racconti, abbracci e piccoli respiri

Written by Diletta Brasile

Il mio primo trasferimento con i bimbi è stato nel mare del Nord quasi vent’anni fa.
Precisamente ad Aberdeen una grigia e granitica cittadina a misura d’uomo a nord di Edimburgo. 

Mio figlio più grande, Daniele non aveva compiuto ancora due anni ed Enrico solo pochi mesi. L’ anno precedente lo avevo trascorso in Italia con il classico dei sostegni familiari. Un nonno che mi aiutava negli spostamenti, una nonna all’accudimento culinario e una sorella che copriva tutto il resto degli spazi liberi ovvero il tempo per la mia doccia, i miei bisogni primari, respirare. 

Mio marito all’epoca lavorava in giro per l’Europa. Si affannava per arrivare il venerdì sera e ripartire la domenica, nei casi più fortunati il lunedì. Io lavoravo full time (autonomamente), allattavo, cucinavo brodini e minestre sane per il primogenito. 

Non ricordo un periodo della mia vita così pieno, dove faticavo anche a pensare a tutte le cose che non andavano. Avevo scelto di partorire in Italia (scelta che non so se rifarei) e ovviamente subivo le mie decisioni patriottiche rassicuranti, ma anche logisticamente complesse. 

Così quando proposero un lavoro a sede fissa per mio marito e meno sbattimento familiare decisi di lasciare il lavoro e dedicarmi alla mia famiglia.  Lo rifarei ? La risposta varia a periodi alterni della mia vita. Oggi dico sì, ma tante volte ho cambiato idea, credo dipenda dal mio stato d’animo del momento. 

In Scozia sono rimasta due anni, è un periodo che ricordo di grande fatica, di poca luce e tanta pioggia. Sono anni di centinaia di pannolini cambiati e biberon sempre pieni di latte , di freddo, di solitudine, di giochi sparsi per la casa a tutte le ore. Di sveglie ad orari improbabili e di pochissimo tempo per me.  Ma era la mia missione, la mia scelta, e tutto sommato anche una non scelta perché i miei bimbi erano li, voluti ed amati ed in qualche modo quel tunnel di dedizione totale e totalizzante avremmo dovuto attraversarlo a qualsiasi latitudine. 

Sono figlia di una mamma casalinga e questo mi ha condizionato nella visione di avere un aiuto nella crescita dei miei figli. Ad Aberdeen poi era tutto particolarmente caro o comunque non alla nostra portata economica quindi dopo tre mesi di delirio totale in cui stavo rischiando un esaurimento nervoso decidemmo di portare i bimbi ad un asilo per le sole ore mattutine.  Le cose andarono un po’ meglio, io iniziai a respirare, a pulire casa senza un bimbo abbracciato al secchio,  mi iscrissi ad un corso di inglese,  conobbi gente con cui scambiare due parole. 

Allo scadere dei due anni attraversammo l’ oceano e sbarcammo in Venezuela. Per noi fu un vero shock culturale. Passammo ad una casa più grande, molto più grande ed ereditammo da un ex collega che ci lasciò la casa,  anche il servizio della donna delle pulizie. Tale Ana. 

Ana era una donna colombiana di 35 anni che ne sembrava avesse molto di più, molto indurita dalla vita che per una cifra per noi europei davvero esigua  usava vivere in casa in  una piccola stanza propria tutta la settimana,  tranne i week end. Le avevo chiesto diverse volte se preferisse tornare a casa tutti i giorni, ma mi spiegò che il tragitto per il rientro giornaliero era molto lungo e che finendo molto tardi non avrebbe avuto senso. Ci organizzammo per ridurre l’ orario e darle più flessibilità. 

Lei non chiedeva nulla. Quel suo annuire costantemente mi metteva in difficoltà. Non capivo, non conoscevo manco bene lo spagnolo, meno che mai cosa le passaste per la testa. 

Un giorno mi sedetti con lei, con calma, con pazienza, senza fretta. Dimmi di cosa hai bisogno, le chiesi. Lei si prese il suo tempo e il suo pudore e  mi rispose :

“Ho bisogno di una uniforme perché non voglio sciupare i miei vestiti, ho bisogno di uno shampoo e di un balsamo perché ho i capelli crespi e soprattutto vorrei poter utilizzare la doccia calda. In casa ho solo un water e un lavandino.”

La nostra relazione nacque sotto una buona stella. Ottenni dopo svariati inviti che pranzasse e cenasse con noi, ma faceva fatica a stare seduta. Correva al volo a sistemare tutto.  

Nel mentre i miei bimbi crescevano mezzi selvaggi all’ombra degli alberi di banano e delle palme, con pappagalli colorati che sorvolavano la casa nelle prime luci dell’alba. 

In Venezuela tutti avevano una nanny, una donna che h24 si occupava di seguire i bimbi, lavarli, vestirli farli giocare.  Fu molto duro accettare per me questo modo locale di crescere i figli nelle famiglie benestanti. Infatti non lo accettai e mi rifiutai. Del resto avevo lasciato il lavoro proprio per crescermeli i figli e non intendevo venire meno, meno che mai affidando l’educazione  ad una terza persona. 

Ma quando conoscemmo Paola fu diverso. Non era una nanny, era una studentessa giovane che amava i bimbi. Aveva diciotto anni, studiava lingue, parlava inglese e amava dormire. La conoscemmo ad una festa per bimbi dove, per guadagnare qualche soldino, colorava faccine.  La sua pazienza e il suo ottimo inglese (non conoscendo noi lo spagnolo ) ci convinsero fosse la persona giusta per farci dare una mano. 

Noi volevamo solo uscire un paio di sere al mese, lei non intendeva rinunciare ai bagordi della sua età. Entrò nella nostra famiglia dalla porta principale, nel senso che ci trovammo talmente bene con lei che iniziò a stare da noi sempre più spesso. 

Tutti i nostri amici e le nostre famiglie conoscono Paola perché è venuta insieme a  noi dappertutto. Viaggi, cinema, momenti delicati di ogni trasferimento,  lei era con noi. Una figlia grande per me e mio marito , una sorella maggiore per i miei bimbi. 

Ora Paola ha 33 anni. Vive sempre in Venezuela e fa l’interprete. Ha un compagno e una bellissima bimba che si chiama Olivia. Qualche giorno fa, prima che rientrassimo negli Usa, approfittando di un viaggio familiare in Europa è venuta a trovarci . Non ci vedevamo da qualche anno e riabbracciarla è stato come tenere a sé qualcosa di caro, che ha fatto parte della tua storia.

I miei figli ormai sono più alti di lei di una spanna,  ma il loro modo di abbracciarsi stretto è rimasto lo stesso e a me questo commuove perché il tempo non cancella niente. Il bene vero non teme il tempo che passa e che non dimentica nulla, anzi rafforza. 

Vedere Olivia tra le braccia dei ragazzi mi ha molto intenerito. Il suo modo buffo di dire “Mamma mia” come le ha insegnato la mamma, quel modo dolcissimo di dire “ciao famiglia”. 

Nel grande romanzo familiare che è la vita di ciascuno di noi, lontano, vicino, con periodi complessi (tanti) e giorni felici (meno) la famiglia non è solo quello che ci è stato insegnato. 

“La famiglia è anche e soprattutto, quello che abbiamo respirato”.

Diletta, Houston

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Author

Diletta Brasile

In uno strano mix di curiosità, poesia e resilienza, da quasi vent’anni giro il mondo con la mia famiglia. Tre continenti, otto paesi, due figli e un cane che si sono uniti strada facendo.
Lingua che arriva dritta al punto e cuore tenero e generoso. Appassionata, schietta e carismatica, amo cucinare se sono nervosa e andare a teatro se sono felice.

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