Tanti anni fa un mio caro amico scrisse un libro.
Auto prodotto, una di quelle cose che si fanno per superare momenti delicati, fasi di passaggio, rinascite.
La storia era in alcuni punti autobiografica, in altri pura fantasia.
Ed era ambientata esattamente a casa mia, a Bari.
Ho comprato quella casa, qualche anno dopo essermi sposata ed un anno prima di iniziare la mia vita da expat. L’ho fortemente voluta vicino al mare, l’ho amata subito, l’ho anche patita durante la ristrutturazione quando lavoravo full time, con un bimbo da svezzare ed un altro in pancia che ballava ad ogni mio turbamento.
Eppure è la mia tana sempre, il mio rifugio, il mio posto in cui tornare. Appesa alla parete della sala c’è un mio ritratto dipinto da un artista locale. Ho un viso sereno, sorrido leggermente in quel tripudio di colori accesi. Il fondo del quadro richiama i pavimenti di inizio 900 che ho fortemente voluto mantenere in casa nel nome di una sana autenticità .
Ogni volta che entro in quella casa il mio cuore si acquieta perché è come se le radici all’improvviso prendessero acqua dopo i tanti mesi di assenza.
Perché vi racconto questo ? Per sollevare una riflessione molto più ampia sulla scelta di noi expat seriali di investire in un immobile “a casa nostra” mentre stiamo progettando una vita altrove, all’estero.
Qual è il senso dell’investimento economico nel mettere soldi su qualcosa di cui godrai solo quando finirai il tuo grande viaggio?
Zero.
Cioè economicamente zero. Questa casa, comprata 19 anni fa mi è sempre costata proporzionalmente tanto. Il mutuo, le bollette, il condominio, il giardiniere, la manutenzione straordinaria degli impianti.
Eppure ho sempre accettato mestamente di rinunciare a qualcos’altro per poterla mantenere, perché il mio cuore ha sempre saputo che io di quel “ posto in cui tornare” ne avevo bisogno. Per stare con la mia famiglia di origine senza sentirmi soffocare dalla mia e dalla loro presenza ingombrante, per rimanere legata ai miei luoghi senza sentirmi straniero, per la comodità di fermarmi oltre i canonici tre giorni dell’ospite. Per sapere che, qualsiasi cosa fosse successa nella mia vita, c’erano quattro pareti capaci di aspettarmi per sempre.
Ho tante amiche, ma probabilmente anche tante di voi , che hanno fatto una scelta economicamente più intelligente della mia, fittando l’immobile o addirittura vendendolo.
Posso dirvi per esperienza concreta che economicamente hanno fatto una scelta sicuramente migliore, ma anche che alcune di loro hanno una resistenza al loro luogo di origine molto più bassa. Che le loro vacanze nei luoghi natali, magari a casa di nonni, zii e parenti sono giustamente più limitati a danno di un senso di appartenenza in alcuni casi inferiore.
Non è assolutamente un giudizio di parte e sono certa che mi racconterete tante vostre esperienze, tutte ugualmente valide e rispettabili.
Oggi vi sto raccontando la mia. Ho due ragazzi che sono adolescenti e che, al netto di desideri legittimi tornano sempre ultra volentieri a Bari, nella nostra casa. Ragazzi che hanno vissuto pochi mesi in Italia prima di iniziare a girare il mondo senza sosta.
Qual è la scelta giusta allora ? Non lo so.
La mia decisione presa tanti anni fa la rifarei mille volte per quello che mi ha restituito.
Il segreto del mio attaccamento alla mia città è nel mio caso senza dubbio lì, tra quelle quattro mura che profumano di mare, tra quei cinque alberi di arance e limoni, tra quell’odore di focaccia del panificio a pochi metri dal portone del mio edificio.
A Houston vivo in una casa molto bella, con una cucina gigante che mi ha dato tantissime soddisfazioni , una sala ampia e luminosa, un giardino bellissimo. Il mio cane già so che soffrirà quando rientreremo in Italia perché tutto quello spazio di cui ora disponiamo negli Stati Uniti potremo solo sognarlo.
Anche quella è casa mia, anche li ci sono le mie cose, i miei libri, le pagelle dei miei figli, le storie e le foto di tanti viaggi. Ma non è il mio rifugio, non lo sono mai state le mie case in giro perché l’ho sempre saputo dal primo istante che sarebbero state provvisorie. A tempo definito, a scadenza.
Tra qualche anno questo grande viaggio finirà e tutto confluirà in un unico posto che vorrei che fosse nella mia terra, tra le sue imperfezioni che ritrovo ad ogni mio ritorno. Perché sia chiaro, io le vedo le lacune del mio paese. Ci sono e le vedo tutte. Ma dopo vent’anni fuori, ne ho viste abbastanza da capire che alla fine nessun paese è perfetto. Resta un desiderio sempre più forte di invecchiare tra le braccia della mia città, parlando la mia lingua madre, godermi il mio cibo, il mio mare, la mia gente.
Ancora non so quando tornerò a vivere in Italia, ma l’idea di avere un posto tutto mio che mi aspetta, mi rassicura e mi consola.
Non potete immaginare quanto.
Diletta, Houston