Per molti occidentali, Manama e un nome che non si sa collocare sulla cartina geografica. Per migliaia di sauditi e di kuwaitiani è invece il luogo a cui darsi a più di un piacere, come sottolinea un po’ piccata la guida di poche pagine che leggo dall’ipad.
È notte fonda, da oltre un’ora attraverso il buio sconfinato del deserto Saudita, spezzato solo da qualche fuoco solitario che troneggia sull’impalcatura di un oleodotto.
E poi all’improvviso ecco le luci dirompenti di una capitale del Golfo, chiassosa, consumista, sviluppata tanto in verticale nel cuore di downtown quanto in orizzontale nelle decine di compound che si insabbiano nel deserto. L’aereo tocca terra, mi accoglie l’odore del traffico, del mare, della sabbia e una nota di zafferano: benvenuta in Bahrain.
Contrariamente ai sauditi e ai kuwaitiani, io sono qui per il più lecito dei piaceri: il matrimonio della sorella di una mia amica. In valigia ho le scarpe più luccicose che posseggo, regalo di un’amica modella, lo scialle che mia nonna comprò in Egitto cinquant’anni fa e due vassoi decorati che appartenevano al servizio buono della mia bisnonna. Porto con me le donne della mia vita in un bagaglio a mano, la loro energia e i loro insegnamenti intrecciati nelle molecole di oggetti che hanno amato è passato come lezioni preziose.
Un sole potente sorge su Manama e sulle mie due ore di sonno. Le strade attorno al mio appartamento hanno marciapiedi di sabbia che si sfaldano sotto i sandali. Il Bahrein non e un paese per pedoni, e vengo fermata da più di un SUV saudita.
Faccio il mio primo incontro con l’henna. Nel giro di pochi minuti le mie mani si coprono di inchiostro, che non riesco a non spalmare sui braccioli del divano almeno un paio di volte. Ma la magia si compie comunque, e i miei palmi si pigmentano decisi mentre mangio falafel con la punta delle dita. Intanto chiacchiero con la sposa, seduta sul divano, che mi racconta la sua scelta di optare per un matrimonio combinato in perfetto inglese americano.
Ecco rappresentata l’incredibile contraddizione della società del Bahrain.
Da un lato una tradizione di matrice islamica e fondata su sistemi di caste che creano larghe famiglie con la tendenza a imparentarsi tra di loro, per mantenere il controllo su soldi e terreni.Una società dall’apparenza cordiale, affabile e semplice, la cui incredibile complessità si rivela solo all’interno dei cortili chiusi da alti muri, nel quale lo sguardo indagatore del vicino o dello straniero non può penetrare. Dall’altro l’influenza prepotente della società del petrolio, che in questa isola ha messo radici che traforano il deserto, portando comunità expat anglofone, scuole internazionali, milioni di dollari, uno sviluppo urbano implacabile è impietoso.
In mezzo, le migliaia di famiglie arrivate dal subcontinente indiano con bauli di saree, capelli scoperti e un amore per il Profeta espresso in maniera molto più colorata e allegra. Tutte le donne che ho conosciuto con abaya e hijab erano turiste o straniere. Qui Zara espone tranquillamente in vetrina minigonne e vestitini, nei mall in cui la musica si ferma per permettere al muezzin di chiamare alla preghiera.
Il 31 dicembre, ci troviamo a guardare i fuochi d’artificio e a fare giochi di società in un condominio vicino al mare assieme a Fatima, suo marito e i cugini di lui. Non fosse per i grattacieli, i bambini alzati fino alle tre del mattino e l’assenza di effusioni fra coppie, direi uno delle decine di capodanni che ho trascorso nell’Europa di Tinder e del ti presento i miei, ma con calma.
Manama stanotte più che mai è il parco giochi di chi vive in uno stato che usa l’Islam come scusa per controllare il comportamento delle persone: è anche una città in cui ho visto, molto più che a Dubai, un Golfo dove tradizione, modernità e tolleranza religiosa cercano un equilibrio imperfetto e contraddittorio. Dove la contraddizione viene tanto dalla cultura religiosa che rende tabù sesso, divorzio e anti convenzionali quanto da una cultura capitalista che celebra l’acquisto sfrenato, il cibo spazzatura e il sovranismo automobilistico.
Manama è una città da assaggiare. Nei ristoranti degli hotel a cinque stelle servono sushi fresco accanto a fondue di formaggio svizzero, accanto all’asado argentino. Nei mall si trova di tutto, dal fast food ai centrifugati al gelato alla nocciola. I supermercati hanno una varietà di cibi internazionali incredibile, e nel supermercato di fianco all’estetista dove torno a farmi i capelli una ennesima volta, trovo la stessa cioccolata che al mio deli sotto casa a Londra.
In Bahrein sanno cos’e il veganesimo, non manca il cibo senza glutine, anche perché mangiano molto riso, e l’apertura mentale regna sovrana anche a tavola, dove si fanno in quattro per renderti felice senza alzare le sopracciglia. Perché sei turista, perché sei diverso, perché sei il benvenuto su questa isola remota. Più difficile è per i giovani locali fare scelte controcorrente rispetto alla tradizione culinaria. Parlo qualche ora con Oath, che ha ventidue anni e fa il volontario al canile, e il cui veganesimo è visto come un vezzo dalla famiglia che vorrebbe pensasse a trovare una lavoro. Lui mi dice che il consumismo non gli parla, che lavorare tutti i giorni gli sembra assurdo, che la preghiera, la meditazione e l’autosufficienza sono le strade che lo chiamano. Se vivesse in UK, prenderebbe una stanza a Stoke Newington e troverebbe migliaia di amici. Chissà come scaverà la tua strada, nel traffico di Manama.
E poi, ci sono i ristoranti degli altri. Degli immigrati di serie b, degli autisti, delle maid. Mi mangio un pho grande come la mia testa in un ristorante vietnamita dopo aver incontrato la proprietaria in un ascensore del mall. La tovaglia di plastica, le sue figlie che giocano dietro la cassa, una clientela di soli uomini tranne me, una partita di calcio a caso alla televisione, le luci basse, il the verde bollente nelle tazzine minuscole.
Manama vive di notte. Le strade di Block 338, il quartiere foodie, si animano di macchine, gente a piedi, sauditi in caftani bianchi. Un pupazzo di neve gonfiabile sventola contro il buio della notte. La musica nei locali è alta, si fuma la shisha, mi colpisce come solo la moschea sullo sfondo mi ricordi che sono nel Golfo. Si respira un’aria di festa, spensierata, leggera, che in un Paese che ha visto scontri armati tra Sciiti e Sunniti solo qualche anno fa non mi aspettavo di percepire cosi chiaramente nell’aria densa di odore di kebab e cherosene. Uno spaccato di cosa potrebbe diventare il Golfo man mano che l’influenza occidentale si spande come un profumo persistente: più inquinato ma anche più tollerante.
Prima di risalire sull’aereo voglio assolutamente visitare l’albero della vita. Un albero che cresce nel deserto, lontano da ogni fonte d’acqua. La mia amica mi dice che non c’è mai stata: ha passato diciannove anni su un’isola di trenta chilometri quadrati senza vedere granché al di fuori del mall. Non mi stupisce: la popolazione expat è per la maggioranza americana e britannica, lei è cresciuta nel boom del mall e dei grattacieli, frequentando una scuola internazionale grazie alla quale parla inglese perfetto e arabo e hindi con accento occidentale. Essendo nata in città, non ha mai visitato un villaggio tipico del Bahrein, mi chiede se sono pericolosi. A me. Io dico che non credo, e finiamo a fare due chiacchiere con Suleyman, che costruisce cestini intrecciati e mi dice che assomiglio a sua figlia, una dei sei “perché mia moglie non ha avuto molto riposo!” commenta ridendo. Suleyman parla un buon inglese, come quasi tutti qui, e mi sforzo di pensare alle opportunità che questa pesante influenza occidentale ha offerto, oltre a privare migliaia di giovani come la mia amica del contatto con la loro cultura.
E che in Bahrein, di cultura, ce ne sarebbe tanta. Questa piccola isola ha tantissimi monumenti funebri, unici in tutto il Golfo. Ha una tradizione religiosa mista araba e indiana che rende i suoi cittadini particolarmente devoti e particolarmente tolleranti. Ha rappresentato negli anni un porto, un punto di passaggio, una goccia preziosa negli scambi internazionali. Tutto questo è raccontato al Bahrain Museum, dove spicca un’intera sezione sulla visita di Papa Francesco al Bahrain e sull’inaugurazione della prima Chiesa Cristiana del Golfo, Nostra Signora dell’Arabia, che raggiungo sotto una pioggerella tanto inusuale per il Bahrain quanto famigliare per me. Una struttura che sembra più una pagoda, ricoperta d’oro e tanto attesa dalla comunità filippina cattolica che ora ha finalmente un punto di ritrovo.
Del Bahrain mi porto a casa i sapori e i contrasti. Il miglior cibo indiano assaggiato dopo lo Sri Lanka, la certezza che qualsiasi hummus in Europa mi deluderà, e un certo sconforto al pensiero che questa terra di pescatori si sia trasformata in un centro commerciale, con la sabbia che silenziosa ne spazza via le tradizioni sotto il martellamento dell’influenza consumistica. Torno a casa riposata e ricaricata come solo dopo un viaggio esperienziale, non turistico. Poche foto istagrammabili per me, lunghi momenti di noia che hanno prima irritato il mio ego londinese, e poi mi hanno permesso di entrare in sintonia con i locali, di osservare Manama con occhi attenti, e anche di osservare me stessa.
A presto, Golfo mio.
Elisa, Londra
Bellissimo questo tuo post. Sono sempre stata affascinata dalla cultura araba anche se questa definizione è un po’ generica. Riuscire a scoprire qualcosa di più grazie a chi la vive più dall’interno è interessante e poi ti scrivi bene.
Grazie Solare, io nel Golfo mi sento sempre a casa, anche se non ho ragioni per farlo: non ci sono nata, non parlo la lingua, eppure ogni volta trovo l’aria più famigliare di quella londinese.