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Elogio della tristezza: Confessioni di una parent coach.

tristezza
Written by Valentina Svizzera

Ennesimo trasloco. Ennesimo giro di saluti, occhi lucidi, scatoloni e valige. Nella mia piccola tribù familiare non tutti lo vivono con la stessa dose di entusiasmo o tristezza. Io son un caso patologico, perché ad ogni partenza da ovunque e per ovunque il cuore mi si frantuma in mille pezzi. E forse accettarlo è l’unica cosa saggia da fare. 

Quindi mi ritrovo per casa una serie di tempeste emotive che si accavallano, che in uno scatolone a volte mi ci vorrei chiudere io.

Il preadolescente ha giustamente il cuore spezzato (o forse ha preso dalla mamma, non so) all’idea di lasciare gli amici.

Il mezzano invece è al settimo cielo all’idea di tornare dai suoi vecchi amici, ma turbato dal nuovo cambiamento.

La piccola volteggia come un raggio di sole che si adombra solo di tanto in tanto…

Il dolore degli altri è dolore a metà. E spesso lo è davvero, ma non per gli empatici, e non lo è se a soffrire sono le persone che amiamo,se poi sono i nostri figli, il loro dolore diventa il nostro, intrecciato in un abbraccio difficile da sciogliere.

E anche se tutto questo è naturale, a volte, ha delle conseguenze negative.

Se noi siamo persone abituate a sfuggire al dolore e alla tristezza, magari cresciuti da genitore a loro volta così, sentendoci ripetere:

Non piangere! 

Non essere triste!

Non è nulla!

Pensa a chi sta peggio!

Ecco io son cresciuta così. E me ne andavo per il mio mondo di bambina con un sorriso stampato in faccia, che – l’ho capito solo poi- era un po’ la mia maschera, il mio scudo, il mio lasciapassare. Non ero una bambina triste, sono ancora una adulta piuttosto solare, ma diciamo che quel velo di malinconia lo ricacciavo indietro. Come tutte le emozioni “negative” o considerate tali.

Ed anche se a mia volta mi son guardata da dire ai miei figli “non piangere!”, il nostro insegnamento è fatto più di azioni che di parole, è molto più profondo e pregnante di quanto crediamo quando accarezziamo un pancione, il nostro, preparandoci ad accogliere nostro figlio/a.

Non vorrei mai vedere soffrire gli altri, questo è vero, ma più di tutto non concedo nemmeno a me stessa di elaborare il mio di dolore. O un momento di fragilità. Passo avanti, come un treno in corsa. Non mi concedo nemmeno un momento per elaborarlo. Sei forte, mi dicevano. Ma ora lo so che non è così vero. Non e propriamente forza, quella che mi hanno insegnato. Anche se di certo sono resistente, quanto è sano? E quanto sarebbe sano passare questo modello ai miei figli?

Dobbiamo ridare spazio a quelle emozioni che hanno ricevuto una etichetta negativa: tristezza, paura, rabbia, malinconia… imparando a dar loro il giusto valore, e peso, accettandole, e solo allora lasciarle andare. Non vivere in una atmosfera di positività tossica, ad ogni costo, o di negazione.

Ogni emozione è una reazione fisiologica a un bisogno di fatto e per questo va accolta, ascoltata, capita e più la scacciamo, meno ci facciamo un favore, allontanandoci dai nostri bisogni profondi e quindi da noi stessi.

Ma come sempre i bambini ci mettono di fronte a noi stessi, ai nostri limiti, ai passi che non vogliamo compiere, alle parole che non vogliamo dire, ai problemi che non vogliamo vedere.

“Non posso vedere Leo triste” mi dice mio figlio, riferendosi al fratello, un giorno. “Gli compro un regalo!” E dietro a un dolcissimo gesto di generositÀ fraterna, intravedo più di un insegnamneto sbagliato che gli ho del tutto involontariamente passato:

  • che noi siamo responsabili e ci facciamo carico del benessere altrui.
  • E che la tristezza è qualcosa di negativo, inaccettabile, da cacciare via ad ogni costo…

Ho così realizzato che se anche li lasciavo sfogare liberamente le loro emozioni, accogliendole, non stavo accogliendo le mie, passandogli di fatto un messaggio quantomeno contraddittorio.

Quindi mostrare le nostre emozioni, accettarle in noi, prima di tutto, può essere un grandissimo regalo che facciamo oltre che a noi stessi, anche ai nostri figli, ricordandoci che il contagio emotivo in famiglia è fortissimo e non possiamo evitarlo. Quello che ci resta da fare è gestirlo.

E c’é altro, che non è secondario: è irrealistico pensare di proteggere i nostri figli da ogni sofferenza. La vita è fatta anche di quello, e questi anni ce ne hanno messo davanti la prova evidente, se già non ci eravamo arrivati.

Tutto questo dolore un giorno ti sarà utile, suonava il titolo di un romanzo. No, non son di quella scuola spartana di pensiero che dice meglio sottoporli a una educazione rigida e senza empatia per abituarli alle possibili frustrazioni future, anzi, ma nemmeno possiamo proteggerli costantemente da tutto: dobbiamo fidarci delle loro risorse e fargli sentire questa fiducia, in modo che sappiamo cosa farne della tristezza e della sofferenza che un giorno, inevitabilmente, si troveranno a sperimentare.

E voi come vivete e come fate vivere ai vostri figli la tristezza?

Valentina, Svizzera.

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Author

Valentina Svizzera

All'estero dal 2006, viaggiatrice da sempre, trismamma, autrice, formatrice e life e parent coach certificata, mi visualizzavo in un Paese caliente e vivo in Svizzera, sogno un mondo di bambini felici e adulti consapevoli, per ora mi limito passo a passo a costruire il cambiamento supportando gli altri nel loro percorso! E sapete cosa? Questo mi rende estremamente felice e grata, ovuqnue mi trovi nel mondo. :-)

1 Comment

  • Che bel post! È così denso, che credo lo rileggerò più volte.
    Per rispondere alla tua ultima domanda …io tendo a lasciarli sfogare stando accanto a loro. Se la loro tristezza è qualcosa che posso “reggere”, li sostengo; se, come quando è mancato il mio papà, sono stata travolta dal dolore, non mi faccio problemi a mostrare loro le mie fragilità. In alcune situazioni cerco di trattenermi, più per non caricarli troppo di emozioni negative che non sono propriamente loro (non so se mi sono spiegata), ma se ciò che li rattrista è qualcosa che fa male anche a me, tendo a condividere con loro i miei stati d’animo.

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