Sono arrivati un lunedì sera poco prima di mezzanotte, mentre nostro figlio dormiva
beato nel suo letto e noi aspettavamo un po’ assonnati, dandoci pacche coi gomiti per
tenerci svegli.
Erano stanchi, ma con un gran sorriso di gratitudine, nonostante le 16 ore di viaggio, i 3
Stati attraversati prima in autobus poi in treno, con le loro 4 valigie contenenti il
necessario per non sentirsi di peso nella nuova città, nel nuovo appartamento.
Due donne, sorelle, entrambe bionde con gli occhi di un azzurro vivido che ben si sposa con il
sorriso mai forzato, semplici e senza grosse pretese sia nell’esplorare i nuovi spazi a cui
dovranno abituarsi, sia nel portamento, nella cucina, nell’abbigliamento. Un ragazzo di 13
anni, poco più grande di nostro figlio, ma gracilino, estremamente educato e riservato,
mai invadente che prova con coraggio a parlare inglese con noi e a volte un po’ se la
prende con se stesso perché non ricorda le parole giuste.
Probabilmente si pente di non aver studiato abbastanza a scuola: e chi sapeva che in un futuro così vicino gli sarebbe servito conoscere l’inglese? E poi un bambino di 4 anni, vivace, ma timido con gli sconosciuti, come è normale che sia, che corre quando è dentro la camera, piange, si
arrabbia calciando il fratello, ma che quando mi avvicino con un sorriso per salutarlo, si
nasconde dietro le gambe della mamma o scappa via veloce con il totale disappunto delle
due donne che probabilmente trovano l’atteggiamento ingrato. Ma ben conosco i bambini
io, e al contrario sono felice che nessuna goccia della sua infanzia sia stata sprecata,
nonostante quello che sta passando.
Fino a qualche giorno prima, il piccolo Roman andava alla scuola materna, circondato dalle
maestre, i compagni, e tutti parlavano la sua lingua; aveva i suoi giochi che lo aspettavano
a casa, la sua cameretta magari, il suo parco giochi preferito. E alla sera c’era papà con lui,
che magari gli leggeva una storia o lo lanciava in aria con le sue braccia forti oppure che
con le stesse braccia lo stringeva a sé, facendolo sentire protetto e amato.
Juri invece fino alla settimana scorsa andava alle medie, ma come il fratellino aveva i
suoi insegnanti, compagni e tutti parlavano la stessa lingua; tornando da scuola magari si
fermava a prendere un panino da qualche parte con gli amici oppure filava dritto a casa a
fare i compiti per evitare un brutto voto, che subito all’inizio del secondo quadrimestre
non fa proprio bella figura. E poi al pomeriggio lo sport oppure i videogiochi o la tv
perché giocare fuori a febbraio nel freddo di Kiev non è piacevole. Anche lui aspettava il
padre di ritorno a casa, per mostrare un buon voto o per chiacchierare di sport o politica
in attesa delle giuste perle di saggezza per diventare uomo.
Nadiya è la madre, che ha lasciato il marito in Ucraina perché gli uomini abili alla guerra
non possono uscire dal Paese; una domenica sera, convinta dall’insistenza dalla nipote che
vive a Praga e dalla sorella, madre della nipote, ha deciso di lasciare il marito in uno Stato
dove i missili colpiscono le case, le piazze, i parchi e per sfuggire all’orrore di un possibile
destino. Ha riempito tre valigie, lasciando a casa i vestiti belli della festa perché tanto, nella
vita da rifugiati, non ti aspettano cene e balli, scarpe col tacco e cappelli.
E soprattutto con il marito prossimo ad indossare una divisa militare ogni giorno, c’è poca voglia di essere eleganti e festeggiare. Come Olha: il marito è già a servizio da una settimana. E’ un
dentista di Kiev che fino a qualche giorno prima ricordava ai pazienti di non sfregare
troppo i denti, per evitare che si usurino ora non può fare a meno di serrare le mascelle e
stringere i denti per la paura. Olha è la madre della mia amica, quella che sabato mi ha
chiesto se sono ancora disponibile ad ospitare rifugiati nel mio appartamento, quella che
timidamente si è scusata per avere un cuginetto di 4 anni che potrebbe dare fastidio, ma
che altrimenti non saprebbero come fare.
A dire il vero sappiamo tutti cosa dovrebbero fare, perché è quello che stanno facendo i 3
milioni di Ucraini fuggiti dalle loro case, dai loro comfort, dai loro amici, da tutto quello
che si sono costruiti con il duro lavoro di una vita e che è costantemente minacciato,
come le loro vite d’altronde, da una guerra temuta da tempo.
I rifugiati ucraini che arrivano a Praga devono raggiungere il Centro Congressi; ad attenderli ci
sono tre tavoli a cui presentarsi: uno è dove vengono registrati, e se hanno già un posto
dove stare, viene dato loro il visto e passano direttamente all’ultimo tavolo, dove viene
data loro la VZP ossia l’assicurazione sanitaria che normalmente costerebbe circa 80 euro
al mese, mentre a loro viene data gratis. Se invece non hanno un posto dove andare, dal
primo tavolo devono passare al secondo e rimangono in attesa che qualche associazione
trovi loro un alloggio adeguato. L’attesa può essere lunga ed estenuante, spesso i bambini
piangono, le madri piangono e qualche volontario piange con loro, ricordandosi poi che il
loro ruolo è di dare supporto, non affliggersi. E ricacciano indietro le lacrime prima di
uno sguardo comprensivo.
La città d’oro si è messa subito in moto già dal 24 febbraio: donazioni, alloggi,
disponibilità di moltissimi ad aiutare, punti di raccolta di vestiti e beni di prima necessità,
distribuzione e smistamento; ho visto tanti giovani supportare attivamente, ho visto
anche molti expat coinvolti; si fanno manifestazioni per la pace in Piazza Venceslao,
mentre la bandiera gialla e azzurra sventola in tutti gli edifici Statali e le persone girano
per la città con due fiocchi, uno azzurro e uno giallo ancora, appuntato sul cappotto.
Forse perché qui siamo a poche ore di auto dall’Ucraina o forse perché anche loro, come i
cechi, erano al di qua della cortina di ferro o forse perché tutti hanno almeno un amico
ucraino qui a Praga perché già prima della guerra erano in tanti a lavorare e a studiare qui.
Camminando per le strade di Praga ora si sente parlare tantissimo in lingua ucraina, così
simile al ceco alle mie orecchie, con in comune molti vocaboli, magari non identici, ma
con un suono simile e più morbido, alternato solamente a tratti da inflessioni simili alla
lingua russa.
E’ così che comunichiamo con i nostri ospiti in questi giorni: a volte in inglese, altre volte
sfruttando la conoscenza di alcuni vocaboli cechi; altre volte invece scrivo alla mia amica
in inglese e lei scrive alla famiglia, traducendo.
I nostri 4 ospiti vivono nella città d’oro adesso, in una stanza grande come il soggiorno
che avevano a Kiev probabilmente. Usufruiscono di una bagno privato e di una cucina,
ma in entrambi sono certa che manca sempre qualcosa, per quanto cerchiamo di lasciare
la totale libertà di prendere, aggiungere, lavare, cambiare a piacere.
Mancano le cose di una vita, comprate e usate mille volte, legate alla routine fatta per
renderci la giornata più semplice.
Mancano i loro cibi, le loro spezie, le loro verdure, le loro marche di detersivo, il bagnoschiuma preferito, l’asciugacapelli comprato da poco.
Ma si adattano e sono grati di quello che hanno in questo appartamento, in molti sono
ancora in attesa di un alloggio al Centro Congressi o vivono nelle palestre delle scuole, i
letti uno vicino all’altro, compagni di stanza mai visti prima, come in un ostello forzato;
altri invece sono nei bunker o nelle stazioni della metro di Kiev, condividendo spazi
miseri e paure immense.
Oppure sono rimasti a casa loro, mentre i missili passano ancora sopra le loro teste e i carri armati li svegliano di notte facendo tremare la casa.
Non sappiamo quanto resteranno e onestamente, non lo vogliamo nemmeno sapere
perché chiedere sembrerebbe voler dare una scadenza alla loro permanenza. Vorrei solo
che se ne andassero domani mattina, per ritornare nelle loro case, alle loro occupazioni,
ai loro amici e alle loro giornate normali, ai loro spazi e alla loro libertà, strappata in un
gelido giovedì mattina di febbraio.
Laura, Repubblica Ceca