Espatrio Reinventarsi

Ricominciare a lavorare, e cosa ho imparato ultimamente

Ricominciare a lavorare
Written by Veronica Marocco

Ricominciare a lavorare è stato uno dei regali di questo 2021, nonostante il mio re-inserimento dopo quasi cinque anni sia stato molto soft: un paio di sere a settimana, più qualche “copertura” supplementare per colleghe malate o assenti.

Insomma, nulla di troppo impegnativo, ma che botta di autostima! Probabilmente perché arrivavo con un carico di energia repressa ed entusiasmo, ai miei occhi è sempre andato (e va ancora) tutto bene, nonostante alcune evidenti piccole pecche della nostra azienda. Ma dopo una giornata intera con due bambini con la bocca mani piedi, andare a lavoro è riposante.

Il mio non è un lavoro manageriale, ho abbandonato certe velleità già da prima di diventare mamma. Non è stata la maternità a farmi mollare il desiderio di una carriera di un certo tipo, ma il semplice riconoscimento di quella che è la mia personalità, semplicemente. Sono fortunata: non faccio parte di quella nutrita schiera di donne che è stata costretta a scegliere fra famiglia e carriera. Fra un posto prestigioso e la cura dei bambini, ancora oggi enormemente sbilanciata.

Poco dopo l’università, sono entrata nel settore dell’Hospitality. Ad un certo punto della mia vita lavorativa, mi sono resa conto che un certo tipo di pressione mi faceva stare male. Che gli obbiettivi fatti di numeri e soldi mi angosciavano, che non ero capace a gestire internamente un discorso basato sul perdita e profitto. Che i miei obbiettivi erano sempre umani, di soddisfazione del cliente, di cose ben fatte, di ordine e routine.

Che non ero fatta per le chiamate a qualsiasi ora, per le tabelle e i grafici, che cominciavo la domenica pomeriggio a sentire la classica palla di pelo nello stomaco al pensiero del lunedí mattina, al pensiero delle riunioni in cui qualcuno, con fare sbrigativo, mi avrebbe chiesto risultati concreti, calcolatrice alla mano.

E allora, basta. I lavori nei quali sono stata più felice, nei quali ho assaporato quella contentezza nella stanchezza che credo sia la migliore delle sensazioni al termine di una giornata di lavoro, sulla via del ritorno verso casa, sono stati tutti basati sull’accoglienza, sul customer service, sull’organizzazione di servizi al cliente.

Un pochino ci sono stata male. La mia personale soddisfazione, la mia serenità interiore passavano attraverso quella che credevo fosse una sconfitta. Che spreco! Potresti fare di più, potresti fare meglio, guadagnare meglio. Non ero forse egoista? E come mi avrebbero guardato gli altri? Soprattutto avendo accanto a me una persona completamente diversa, molto resistente e direzionata nelle sue scelte.

Ci sono voluti anni per riuscire ad interiorizzare e, se vogliamo, a digerire questa cosa. Non siamo il lavoro che facciamo, o meglio: non è il lavoro che facciamo a darci valore come persone. Sembra semplice, la scoperta dell’acqua calda, ma non lo è affatto. Perchè da persone con un certo livello di studi, reputate intelligenti, appassionate, interessate, acculturati, ci si aspetta sempre molto, e non sempre questo molto corrisponde alle proprie predisposizioni d’animo. E no, non è uno spreco.

Perchè non tutti siamo estroversi, competitivi, brillanti e sempre pronti a gettarci nella mischia, nonostante ne avremmo, potenzialmente, le capacità. Potremmo, ma ci fa stare male.

Oppure, semplicemente, non c’è posto per tutti. E bisogna abbandonare molti stereotipi e lanciarsi verso l’ignoto. Verso possibilità lavorative che forse non avremmo mai esplorato. Soprattutto all’estero: mi è capitato di parlare con persone che avevano buone lauree ma a conti fatti non erano davvero competitive in quel momento. Essere laureati con 110 e lode in una facoltà di lingue orientali e trovarsi a parlare perfettamente giapponese a Tokyo: benissimo, sei nel posto giusto, ma ci sono 120 milioni di abitanti di quest’isola che parlano la stessa lingua a livello native. Cosa sai fare? Cosa puoi fare? E da lì si parte, senza preconcetti.

L’espatrio spesso influenza enormemente cambi di carriera e prospettiva, e aiuta in un certo senso a trovare strade che forse non si sarebbero mai percorse, persi nella routine o nel labirinto del “cosa ci si aspetta da me che ho studiato X all’Università di Y, e che dunque sono supposto fare il lavoro Z”.

Non tutti i laureati in Arte dirigeranno il Moma, non tutti gli esperti in comunicazione progetteranno la nuova campagna della Nike. Alcuni avranno le capacità per farlo, ma non vorranno o potranno, semplicemente perché si sono ritirati dalla competizione molto prima (disclaimer: non sto parlando di me!). E va benissimo così, fino a che un giorno la smetteremo finalmente di giudicare qualcuno in base al titolo stampato su una business card, o credere che un genitore che ha deciso di rimanere a casa con i figli sia un povero mentecatto che passa la giornata a stirare (o, peggio, che si riposi tutto il giorno…).

Forse ho messo troppa carne al fuoco? Forse, ma io a poco a poco mi sono messa il cuore in pace. Non vuol dire che io non possa di nuovo ricoprire un posto di qualche responsabilità, o avere ancora un piccolo gruppo da gestire: ma sicuramente non in ambienti o settori ad alto tasso di adrenalina.

Quali sono le vostre esperienze? Avete trovato una nuova consapevolezza o nuovi percorsi? L’espatrio, quando c’è stato, ha influenzato le vostre scelte?

Veronica, Francia

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Author

Veronica Marocco

Amante dei viaggi e dei libri, con la mia laurea in Lingue e il mio lavoro in hotel, sapevo che prima o poi sarebbe arrivata l'occasione di partire! Quello che non avrei mai immaginato invece, era partire dalla Francia per fare tappa ad Hong Kong, Tokyo, Taipei, Shanghai. Dopo un breve "Francia-bis", ripartire poi per Doha e, infine (per ora) Marrakech. Nel frattempo, da due siamo diventati quattro, e le nostre avventure non sono ancora finite!

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