Non potrò mai capire come ci si sente
a svegliarsi un giorno e ritrovarsi con niente.
Non potrò mai capire come ci si sente
ad avere 16 anni e dover lasciare il proprio ambiente
tutti quelli che si ha amato
tutto quello che si dà per scontato.
No, non potrò mai capire come ci si sente
a scappare per salvarsi la vita
e ritrovarsi soli su una strada in salita.
Questa è la realtà di migliaia di ragazzini di 14-16 anni che sono arrivati in Svezia negli ultimi anni. Qui vengono definiti come ensamkommande (traduzione alla lettera: arrivati soli), cioè ragazzi al di sotto dei 18 anni che non hanno più genitori o famigliari che possono occuparsi di loro e che sono arrivati soli.
Tra il 2015/2016 sono entrati in Svezia più di 35 000 ragazzini soli per chiedere asilo politico. Dopodiché il numero è drasticamente sceso a poco più di mille grazie alla chiusura della frontiera tra Danimarca e Svezia. I paesi d’origine sono Afghanistan, Somalia, Siria, Eritrea e Iraq. Più del 70% di questi ragazzi sono maschi.
Gli ensamkommande, dichiarando di essere minorenni (difficile provare il contrario se sono senza documenti) hanno diritto ad avere una sistemazione in famiglie, un tutore legale e la possibilità di andare a scuola. L’ufficio immigrazione si occupa delle loro pratiche e decide se concedergli il permesso di soggiorno o rimandarli ai loro paesi.
Ora io non voglio discutere se sia vera o falsa l’età dichiarata da questi ragazzi, né tanto meno discutere se sia giusto o sbagliato rimandarli in patria. Vorrei soltanto lasciare una mia riflessione basata sull’esperienza personale di alcuni di questi ragazzi che frequentavano la scuola in cui lavoravo.
Mi sono spesso chiesta cosa li spinge a venire fino a qui. Se vale veramente la pena fare un viaggio così lungo per poi rischiare di essere rimpatriati.
Speranza, incoscienza o disperazione?
Tu ti svegli ogni giorno e inizi la tua routine dove è ben chiaro cosa mangerai, come affronterai un altro giorno di lavoro o scuola, chi incontrerai, cosa indosserai. Ma un bel giorno non è più una questione di “cosa” ma “se”. Se avrai disponibilità di cibo o vestiti, se avrai la possibilità di andare al lavoro o a scuola, se mai potrai riabbracciare coloro che ti stanno a cuore. Forse è tua madre, i tuoi fratelli, il tuo migliore amico o l’amore della tua vita.
Ti senti angosciato solo a sfiorare questo pensiero? Se la risposta è no, allora fermati un istante e leggiti questa testimonianza.
C’è un ragazzo timido tra i miei studenti. Se ne sta seduto in disparte in un angolo dell’aula e scrive su un quaderno. Probabilmente è così che trova la sua pace interiore. Lui è uno dei tanti ensamkommande, arrivato solo, nel 2016.
Con orgoglio mi fa vedere il testo che è riuscito a scrivere in svedese, i suoi occhi si illuminano e io penso a tutto quello che questi occhi hanno dovuto vedere, quanto le sue gambe magre hanno dovuto camminare per arrivare dov’è oggi, quanta sofferenza quest’anima ha dovuto sopportare alla sua giovane età.
Questo pensiero mi spegne il sorriso e mi fa mettere in discussione la mia gratitudine per tutto quello che possiedo. Non sono nata in un castello ma do comunque per scontato tutto quello che ho.
Un giorno mi ha raccontato di quando ha iniziato il suo viaggio con la madre, di quando hanno attraversato a piedi l’Afghanistan fino a raggiungere l’Iran. Mi ha raccontato di quando ha trascorso un periodo in una cella in Turchia, dove veniva picchiato se chiedeva qualcosa da mangiare. Mi ha raccontato di aver raggiunto la Grecia dove ha dormito in un cartone e ha indossato gli stessi vestiti per tre settimane. Mi ha poi raccontato di aver proseguito il viaggio aggrappato sotto un camion, tenendosi stretto stretto mentre questo viaggiava ad alta velocità. Mi ha detto di essersi chiesto più volte perché lo stesse facendo, mentre il vento gli congelava le ossa e i capelli quasi sfioravano l’asfalto. Per 30 ore.
Le ferite sul corpo sono sparite, ma quelle nell’anima sono rimaste indelebili. Le sue parole sono pesanti come dei mattoni e trafiggono il cuore come una lama. A fine racconto penso a qualcosa che mi ha detto all’inizio. Qualcosa non quadra, ma non so cosa. Poi una parola mi suona nelle orecchie, “mamma”. In quell’attimo mi rendo conto che lui ha iniziato il viaggio con la madre ma è arrivato qui da solo. Non gli ho chiesto altro, la risposta l’ho trovata da sola.
Dopo aver ascoltato i racconti di alcuni di questi ragazzi ho realizzato che non voglio essere qualcuno che nega al mio prossimo empatia, comprensione, una spalla su cui piangere, una mano guida, un’altra possibilità di ritrovare gioia nella vita quotidiana, come quella che avevano prima di ritrovarsi con niente.
È umano sentirsi minacciati dall’incertezza, ma essere consapevole che ci sono persone che vivono sotto minaccia costante e sono costretti a lasciare tutto quello che gli è più caro, e decidere di ignorarlo, voglio classificarlo come inumano.
Si fa in fretta a giudicare. Si fa in fretta ad accusare queste persone di essere causa di disoccupazione e crisi. Si fa in fretta a mettere in discussione il loro valore.
Ma non si può capire com’è svegliarsi sotto il fragore delle bombe. Non si può capire com’è essere costretti a scappare da una guerra che ti toglie tutto. Una guerra a cui il tuo paese ha contribuito con armi.
No, io non riesco a capirlo. E forse non riesco neanche a immaginarmelo.
Wanda, Svezia