Credo di non avere grandi rimpianti delle varie fasi della mia vita. Ma se c’è una cosa che non scambierei con niente al mondo e rivorrei tale e quale, è la mia infanzia.
Sono cresciuta in un paese di 2000 anime in mezzo alle colline. Quando avevo sette anni ci trasferimmo in una nuova casa in una delle vie nuove del paese. Una sorta di periferia, se così si può dire di un abitato così piccolo.
Una strada con una serie di villette bifamiliari su ogni lato. A una decina di metri un fiume ed un bosco che, allora, mi sembravano immensi.
Essendo la zona nuova del paese, ci vivevano quasi tutte famiglie con bambini più o meno della stessa età. Ci contammo una sera: eravamo quaranta, tutti dai 9 ai 13 anni. Quasi tutte femmine.
Prima eravamo un grande gruppo ma poi, una sera, due delle ragazze più grandi litigarono e fu così che ci dividemmo in due bande rivali, non per simpatia, ma dividendo semplicemente a metà la via.
Da quella sera ognuno appartenne ad una delle due bande. I nostri erano scontri a suon di ruba bandiera, strega comanda colori e tanti altri giochi.
Ognuno avevo scelto un luogo in cui costruire la propria sede. La nostra era lungo il fiume, in un punto dove i tronchi degli alberi formavano quasi un covo circolare. La sistemammo facendo delle sedute con le pietre, mettemmo teli appesi come tende. Ci sembrava un luogo speciale e bellissimo. Da difendere a tutti i costi.
Ci inventammo un alfabeto segreto per scambiarci i messaggi in bigliettini arrotolati. Anche per parlare ideammo un linguaggio in codice per non farci capire dall’altra banda. Ci sembrava di avere segreti enormi da non rivelare per nulla al mondo.
Poi però c’erano anche i giochi tutti insieme. C’era la caccia alle lucciole nelle sere di maggio. Quando riempivamo i barattoli di vetro delle conserve di piccole luci.
C’erano i bagni al fiume appena finiva la scuola. I tuffi, i brividi e le risate.
Le lunghe chiacchierate di sera, tutti seduti sul muretto perimetrale dell’unico condominio.
E poi le pallate di neve e le scivolate con il bob giù dalla discesa. Che allora la neve arrivava ancora tutti gli inverni.
Giorni felici e spensierati. Con un senso di libertà e possibilità che forse non abbiamo provato più crescendo.
Credo di aver avuto l’infanzia perfetta. Con rari impegni e tanto tempo a disposizione. Per annoiarsi ed inventarsi le giornate.
Un po’ mi è dispiaciuto, quando sono diventata madre, constatare che l’infanzia dei miei figli fosse tanto diversa dalla mia. Pur avendo scelto di vivere in campagna, non ce la siamo mai potuta godere più di tanto. Perché i weekend erano fatti di soli impegni. Nonostante la fortuna di vivere in un gruppo di case dove vivono diversi bambini, raramente c’era il tempo di giocare insieme. Sempre impegnati altrove, in mille attività.
Ma poi è arrivata la pandemia. E io l’ho scritto più volte anche qui, che pur nella sua scia tremenda e terribile, ha portato anche qualche risvolto positivo. Sicuramente una maggiore consapevolezza su quello che è veramente importante. E una scala di priorità invertite. E ci ha portato tempo, tanto. Impegni azzerati e nessuna possibilità di partecipare ad una qualche attività. Fosse anche solo andare a pranzo fuori.
E così i bambini si sono ritrovati, fuori dal periodo più nero della quarantena stretta, a passare le loro giornate tutti insieme nel nostro grande parco condominiale.
Hanno costruito una capanna con la legna raccolta in giro e aperto un varco in un piccolo boschetto di bambù.
Giocato a giochi a cui non giocavano da tempo, come nascondino. Hanno fatto esperimenti strani, nei giorni in cui non sapevano più cosa inventarsi. Improvvisato picnic e mangiato insieme la pizza. Hanno fatto braccialetti con le perline. E preparato un circuito da fare con le loro mountain bike. Si sono avventurati nei campi intorno a casa, tornando ogni volta con qualche tesoro o racconti avventurosi e fantasiosi. Hanno messo in piedi un mercatino per le persone che vengono a camminare sulle nostre colline. Si sono improvvisati commercianti strappando un sorriso a tutti.
Hanno messo a dura prova il grande corridoio condominiale nei giorni di pioggia. Quando si è trasformato, a seconda dell’umore della giornata, in campo da calcio, da tennis o pista per la bici. E forse il cotto avrà i segni delle gomme delle biciclette per i prossimi vent’anni.
Hanno sperimentato la convivenza. Si sono divertiti, hanno discusso, litigato con pianti e urla e riso di nuovo dopo mezz’ora.
Sono stati finalmente, anche loro, una banda. Di quelle che appena sveglio non vedi l’ora di correre a chiamare gli amici. Che non vorresti lascare nemmeno per mangiare. La banda delle giornate piene piene, fuori da mattina a sera. Che le ore sembrano non bastare mai.
E io mi sono rivista in mio figlio. E sono stata tremendamente felice che anche lui abbia avuto un pezzo d’infanzia così. Con tanto tempo per annoiarsi ed inventarsi le giornate.
Federica, Italia
Mi hai fatto commuovere, forse perché ho le tue stesse emozioni. Noi ce ne siamo andati da Roma poco prima di venire rinchiusi e siamo tornati nel mio paesino dove oltre al lockdown hanno ritrovato una dimensione decisamente più umana.
Che piacere ritrovarti! Era da tanto che non avevo tue notizie. Proprio da quando ti eri trasferita a Roma…Spero che tutto sia andato al meglio (pandemia a parte…).
Chi ha vissuto un’infanzia così non può che desiderarla anche per i propri figli!
Sai che mi hai ricordato la mia infanzia? Anche per me è stato come racconti tu. Noi di impegni ne avevamo molti, tra sport e musica e gite in famiglia ma, soprattutto d’estate, facevamo banda. Anche perchè spesso gli sport li praticavamo con gli stessi bambini del quartiere, vivendo in un paesone. Ai miei figli è mancato ma, con un pò di impegno, ora va meglio e qualche volta fanno banda per le settimane estive. E’ davvero bellissimo, ricordi che scaldano il cuore e si portano nella vita.