Vivere all'estero

Se ogni espatrio finisce a Montecatone

Tramonto in campagna
Written by Elisa, Abu Dhabi

Se vi state chiedendo dove sia Montecatone, probabilmente siete fortunati. Perché sono solo tre casi in cui potreste conoscere questo borgo sulle colline romagnole, ovvero:

  • Siete nati o cresciuti nelle vicinanze (ed essendo uno dei tratti Appennini più belli, siete fortunati anche in questo caso);
  • Voi o un vostro conoscente avete lavorato o fatto un tirocinio da quelle parti;
  • Voi o un vostro conoscente avete subito una lesione midollare o una grave lesione cerebrale.

Io appartengo alla categoria di chi Montecatone lo conosce per tutte e tre le ragioni. Sono cresciuta tra Emilia e Romagna, ho uno zio che ci lavora e, nel settembre di cinque anni fa, ho messo piede per la prima volta nel reparto di terapia intensiva come parente di un paziente.

Il 3 settembre 2013 è il giorno che mi resterà impresso nella memoria come l’ultimo giorno della mia vecchia vita. Mi sono svegliata all’alba, col sole che entrava direttamente dalla finestra.

Ho passato tutta la giornata in terrazzo a guardare il mare, perché sapevo che ci saremmo salutati per un bel po’. Col mio ragazzo abbiamo pranzato al porto, ma non ho quasi toccato cibo.

Ricordo la stretta allo stomaco della nostalgia, all’idea di allontanarmi dall’Adriatico e da quella vita semplice in riva al mare. Il muoversi in bicicletta, le serate al chiringuito coi piedi nella sabbia, l’aria profumata di quella piccola cittadina tranquilla. Ma avevo preso la mia decisione, e quella cittadina non l’avrei chiamata casa.

Quando il sole ha cominciato a calare, sono salita in macchina da sola. Dai finestrini il rosso del tramonto mi abbagliava: ho accostato in una piazzola della A14 per scattare una foto. Ho pensato che dovevo ricordarmelo, quel momento. Quel tramonto che segnava la fine di un’epoca.

Prima di dormire sono andata a salutare i miei nonni materni. Vivevano ancora nella casa che aveva visto nascere prima mia madre e poi me. Ci sedemmo nel salotto arredato coi mobili della mia bisnonna, e rimanemmo a chiacchierare per due ore del mio futuro, dei miei studi e di quando mia nonna insegnava il russo a mio nonno per telefono dopo che lui aveva finito di lavorare.

Erano la roccia della famiglia, i miei nonni. Lui a ottant’anni lavorava ancora, lei gestiva la famiglia e la segreteria della sua parrocchia oltre a raccogliere tutti noi nipoti attorno al suo tavolo ogni giorno. Lei era stata la prima a sostenermi quando avevo scelto un’Università francese. Quella sera mi ha promesso che un giorno a settimana avrebbe piazzato il suo iPad al centro della tavola così avrei potuto pranzare con loro.

E mentre li sentivo parlare e ridere, l’ho pensato: goditi questo momento, potrebbe essere l’ultimo.

E infatti lo era.

Il giorno dopo sarei partita da Milano per Basilea e poi per l’Alsazia. Tre giorni dopo mia nonna è caduta. Una caduta stupida, che l’ha lasciata paralizzata dal collo in giù ed in pericolo di vita. Nella mia famiglia non c’erano mai stati lutti o tragedie, avevo quattro nonni in gamba e sanissimi. Ed erano passate nemmeno 72 ore da quando me ne ero andata di casa.

Mia nonna fu trasferita all’Ospedale di Montecatone, a circa un’ora di macchina da dove vivevano le sue figlie e suo marito. Nessuno aveva la più pallida idea di come e quanto mia nonna avrebbe potuto recuperare.

Da quella prima telefonata di mia madre con voce incrinata dall’esterno di una sala operatoria, ho sentito uno strattone allo stomaco. Una corda invisibile che gli si serrava attorno e mi tirava verso quell’ospedale in cui mia nonna era arrivata in elicottero e tutta la famiglia in auto alla spicciolata, distrutta dal dolore e dalla paura.

E ho capito che sì, sarei rimasta in Francia, ma non l’avrei mai fatta sentire sola.

Ho iniziato a fare la pendolare con Montecatone ogni due settimane. Il venerdì andavo a lezione con il trolley, finivo alle 16, prendevo il tram per la stazione, alle 16.45 il treno per Basilea e alle 17.45 quello per Milano. Arrivavo in Centrale dieci minuti dopo la partenza dell’ultimo Frecciarossa, così mi prendevo un milkshake alla vaniglia da McDonald’s e aspettavo il regionale delle 22.30 col quale arrivavo a mezzanotte e tre quarti a Bologna, dove mi raccoglieva mio padre.

Il sabato andavo a Montecatone subito dopo pranzo. Ci tornavo la domenica mattina. Poi la domenica sera prendevo un regionale per Milano, dove un’amica mi apriva la porta di casa perché riposassi sul suo divano qualche ora. Alle 5.45 del lunedì mattina cominciavo il viaggio per Basilea e per essere a lezione per le 11.

Mi sono abituata in fretta a fare la spesa in modo da avere il frigo vuoto ogni due giovedì. Il lunedì pomeriggio, tornata da lezione, passavo al mercato e lo riempivo di nuovo. Mi sentivo sospesa per dodici giorni, in apnea per quelle nove ore di viaggio e poi arrivavo a Montecatone e respiravo a pieni polmoni l’odore della capostipite della mia famiglia matriarcale, la respiravo senza toccarla dietro al mio camice guanti cuffia mascherina.

E poi tornavo, in una città in cui non conoscevo nessuno, di cui non padroneggiavo ancora la lingua, con quella corda attorno allo stomaco e il peso di quel pensiero del 3 settembre 2013 che era diventato realtà.

Cosa succede se il lutto più grande della tua vita avviene prima ancora che tu abbia avuto il tempo di incontrare qualcuno nel tuo nuovo Paese? Quando ancora non esistono internet sul telefono e le chiamate WhatsApp? Era una possibilità quella di presentarmi “Ciao, mi chiamo Elisa e ho bisogno di piangere perché mia nonna rischia di morire” in un campus universitario dove la priorità di tutti erano festeggiare e divertirsi?

È stato su quelle colline che alcuni mesi dopo ho capito che la mia avventura estera era da mettere in pausa. Ho deciso di tornare temporaneamente a fare base in Italia. A tenere la mano di mia nonna, che in quella casa che aveva visto nascere prima mia madre e poi me non poteva più rientrarci. Cinque maledetti gradini le hanno impedito di accomiatarsi da cinquant’anni della sua vita, che noi con pazienza abbiamo impacchettato e spedito in una nuova casa, fatta a misura della sua enorme disabilità.

E poi, un anno dopo, i miei genitori hanno ristrutturato quella casa e ci si sono trasferiti. Hanno rifatto infissi e pavimenti, ma hanno conservato il mobili della cucina che erano in ottimo stato.

Se si strizzano gli occhi, sembra ancora la cucina in cui noi siamo cresciute. Prima mia madre e poi io. E per di più ora mia nonna ci può entrare di nuovo, perché i miei genitori hanno costruito una rampa che le permette finalmente di superare i cinque maledetti gradini. Dirigendo me e mia sorella, ha fatto la sua prima produzione di ragù dopo quattro anni, e tutti abbiamo pianto assaggiandolo di nuovo, ripensando a quel settembre 2013 in cui sembrava dovessimo prepararci al peggio.

E invece la vita ha vinto. È tornata a scorrere prima nel corpo ferito di mia nonna e poi nella casa che avevamo dovuto abbandonare.

Il 2017 sembrava l’anno perfetto per ripartire. E così abbiamo chiuso le valigie, questa volta in due, destinazione Londra.

Ma il destino sa sempre dove infilare il dito, e mia nonna è di nuovo ricoverata a Montecatone per un periodo. E come ho avuto la notizia, questa volta direttamente da lei, ho sentito di nuovo quello strattone famigliare. Quel cordone ombelicale che potranno anche aver tagliato a pochi minuti dalla nascita, ma che mi unisce visceralmente alle donne che mi hanno dato la vita e mi richiamava ad essere presente il più possibile, ancora una volta, per lei.

Quest’anno sono gli aerei Ryanair che mi permettono di vederla due volte al mese. La sveglia alle 4 di mattina, la corsa in metropolitana e poi in treno da cui si comincia a vedere l’alba. E poi a Stansted per prendere il volo delle 8.45.

Ancora una volta mi sembra di vivere in apnea mentre attraverso la mia vita quotidiana. Ancora una volta nessuno ha la più pallida idea di se e quando le complicazioni di mia nonna si risolveranno. Ma siamo tutti cinque anni più vecchi: lei è meno combattiva, mio nonno non lavora più, mia madre e le sue sorelle hanno iniziato a doversi occupare anche della loro salute.

E poi ci sono io, che due sabati al mese dopo pranzo prendo la macchina e guido verso Montecatone, che sembra essere la meta finale di ogni mio espatrio, il buco nero in cui si concentrano le mie paure, le mie insicurezze, e il dubbio che sia il mio volermene andare a portare male. Ogni volta.

Elisa, Inghilterra

PS: Il Montecatone Rehabilitation Institute è un’eccellenza europea nella riabilitazione di persone con gravi lesioni spinali e cerebrali. Se desiderate conoscerlo meglio e sostenerlo, vi invito a cliccare qui.

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Author

Elisa, Abu Dhabi

Nata con i piedi nell’Adriatico e cresciuta sotto le Due Torri, una delle mie prime ricerche su Google è stata “come ci si trasferisce negli Stati Uniti”: i risultati mi hanno convinta dell’importanza fondamentale della libertà di movimento in Europa. Ho vissuto in Francia, a Londra, in Macedonia e ora faccio base ad Abu Dhabi. Mi occupo di sostenibilità, insegno yoga, sono ambasciatrice dello slang parigino di banlieue nei quartieri bene di Londra e della cucina vegana senza glutine in giro per il mondo.

6 Comments

  • Quanto sei brava.
    A scrivere, ma soprattutto a convivere con tutti questi pensieri e sentimenti.
    Quanto sei anche fortunata. Per i puri sentimenti che provi. In nessun momento traspare nessun senso di dovere, ma soltanto voglia o necessità di esserci.
    Bellissimo tutto. Il tuo andare e tornare. L’andare di nuovo e poi fare i rientri – tutto sempre molto coscientemente.
    I cambiamenti nella vita non sono facili. Sono necessari e non possiamo evitarli, ma non sono facili.
    Avevi ben ragione di fotografare quel tramonto, perché ci sono momenti in cui siamo pienamente consapevoli dei cambiamenti che stanno per succedere. E non si può fare niente. Tu sei stata molto brava a riuscire, comunque, a fare un po’ di qua e un po’ di là, rispettando i tuoi sentimenti e sensazioni.
    Da qui a molti anni sarai serena e fiera di te stessa. Avrai tua nonna nel cuore e lei avrà avuto tu nel suo. Saprai di aver fatto la cosa giusta, donandoti senza però perdere la tua strada.
    Complimenti e lunga vita a tutti <3

    • Grazie Ana, mi sono commossa a leggere il tuo commento. Esatto, per me zero senso del dovere, è solo la necessità del cuore di esserci nel momento del bisogno per qualcuno di importante.

      Farò leggere questo commento bellissimo a mia nonna, che nonostante tutto usa ancora il tablet 🙂

  • Intanto ti abbraccio forte, perché non è da tutti fare i sacrifici che hai fatto e che fai per amore. Dalle tue parole si percepisce il forte senso di appartenenza alla famiglia e il grande amore che vi unisce; non mi stupisce che tua nonna sia così tanto amata. Ha costruito insieme a tuo nonno una famiglia fantastica. Di fronte alle grandi difficoltà, gravi malattie e cambiamenti importanti è facile perdersi, allontanarsi, se non esiste un collante fatto di sentimenti forti, veri e sinceri. Grazie per il tuo post così pieno di cuore. Barbara

    • Grazie a te Barbara per questo commento, altrettanto pieno di cuore. Eh sì, i miei nonni i sono fatti capostipiti di una famiglia molto unita, ne hanno dettato le regole e hanno saputo cambiarle quando era il momento. Si sono fatti radici solide, ma che non legano, ed è la più bella trasformazione che una famiglia possa fare.

      Tante belle cose per voi tre in Germania 🙂

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