Volevo cominciare questo post in un altro modo e scriverlo seduta al pc al tavolo di casa. Invece lo sto buttando giù a penna sulle ginocchia, dentro un aereo fermo a Kinshasa. Sono qui da più di tre ore ormai, ho finito di leggere La luna e sei soldi, ho dato fondo alla scorta di cioccolato bianco e… ora che faccio? Scrivo.
Lo scorso mese vi ho raccontato delle mie sfighe burocratiche, se ricordate. Ecco, a queste vanno aggiunte quelle aeree: cancellazioni, ritardi, rischedule, notti bloccati nelle città di scalo in attesa che il volo parta (si spera!) l’indomani.
E anche stavolta non c’è stata eccezione: arrivati nei cieli di Luanda dal Sudafrica, il pilota annuncia una situação anormal all’aeroporto. Non è possibile atterrare e, così, ci dirotta verso Kinshasa. Peccato che in RDC non si possa entrare senza visto e così… eccomi qua. Chiusa in aereo, impossibilitata a scendere.
Ma passiamo al post.
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Cape Town, 31 marzo 2018.
Non sono nemmeno le 6 di mattina, fuori è ancora buio pesto. Eppure un gruppo di 16.000 persone è già sveglio da un pezzo. Alcune di loro tentano battute, altre ridacchiano nervosamente, altre se ne stanno in religioso silenzio. Tutte, però, scalpitano dentro. Tutte hanno il cuore che batte forte: tanto gli habitué, quanto i novellini, come me. Gli altoparlanti trasmettono l’inno sudafricano. La mano sul cuore, chi lo conosce lo canta a squarciagola o lo mormora a fior di labbra, come sempre accade con gli inni.
La tensione è palpabile e, giusto per darci il colpo di grazia, dopo l’inno risuonano le note di Momenti di Gloria. Un groppo in gola, gli occhi un po’ lucidi. Perché ci speri, ma non sai se ce la farai. E se ce la farai sarà dura. After months and months of preparation, this is it! – dice lo speaker. There’s no turning back now!
Ed è proprio così. La massa si muove, i top runners già in testa. 21km tutti davanti a noi, che si srotolano nella splendida cornice di Cape Town, in quella che è che definita the most beautiful marathon in the world (e che per noi sarà una half marathon).
“Non sapevo corressi” – mi ha detto Federica Italia su Facebook. “Nemmeno io!” – mi è venuto naturale risponderle. Perché ok che non sono mai stata una né da zumba né da yoga, ma ho cominciato a correre proprio per caso. Da sola, sul tapis roulant in palestra. E poi fuori, le lunghe distanze insieme a mio marito, con un po’ di ansia perché in Angola dovremmo essere sempre accompagnati e in solitaria non si gira. “Girl u better be careful..! So much stuff happening here. Even the sos doctors aren’t allowed to run outside here” – mi ha scritto piuttosto preoccupata Julie, che viene in palestra con me.
Lo so. È solo che correre La Mezza era uno dei miei obiettivi. Una di quelle cose che se non le faccio ora, quando. Mi mancano già tante cose qui, troppe cose mi sono precluse. Mi sento in gabbia tante volte, in Angola. Forse è per questo che inconsciamente mi sono data alla corsa. Perché, da sempre, la corsa è metafora di libertà.
Mentre Cape Town ci sfila accanto, i supporter si affollano lungo le strade. C’è chi improvvisa balletti, chi suona uno strumento, chi offre shot di vodka (!), chi incita sconosciuti gridando i nomi stampati sui pettorali. Negli ultimi km c’è un bimbo che grida Grandmaaaaa!! Perché a correre è la sua nonna.
Alcuni corridori sono stupefacenti. Io sono abbastanza in forma e relativamente giovane: non ho niente di interessante da raccontare. Ma le stampe sui pettorali di tante persone rivelano vite straordinarie: tanti runner sono sopra la settantina, ad esempio. Una signora ha alle spalle ben 20 Mezze: corre da sempre e, soprattutto, corre ancora. C’è una coppia sulla cinquantina, indiani forse, che definire sovrappeso è poco. Eppure eccoli lì. E poi c’è una donna bionda, che sulla maglietta ha stampata la foto di una bella ragazza col cappello. E una scritta: in memory of. La ragazza col cappello non c’è più. La bionda corre per lei, forse è un’amica o… no, il fisico può ingannare ma il suo volto rivela il peso degli anni. Superandola, capisco che potrebbe essere la madre.
È uno spaccato di gente bellissimo la Maratona. Storie diverse, persone diverse, background diversi ma un unico scopo: arrivare. Run as one, dice lo slogan, e quanto è vero.
Pensavo che correre una gara ‘seria’ fosse una di quelle voci da spuntare da una immaginaria lista di cose da fare una volta nella vita tipo nuotare con gli squali (✓), fare bungee-jumping (✘), salire sulle dune del deserto (✓). La verità è che una gara di questa portata è rivestita di una carica emotiva pazzesca, a cui non ero assolutamente preparata. Perché il bungee, la nuotata etc. sono in fin dei conti questione di attimi, stupide prove di coraggio che l’istinto del momento ti porta a fare. La corsa su lunghe distanze è frutto di tanto lavoro, di tanto impegno. Crea attesa, aspettativa e sai che puoi contare solo sulle tue gambe, sì, ma come te e con te ci sono altre migliaia di persone.
L’ultimo chilometro è stato il più duro. E non perché fossi particolarmente stanca, ma perché si stava lentamente sciogliendo tutta quella tensione accumulata ormai da settimane.
Non so come spiegarlo. Una corsa è condivisione, potenza, fiducia in se stessi. Volontà. E l’arrivo è… è immenso.
Sono certa che questo turbinio di sensazioni non l’avrei mai avrei potuto vivere se non fossi stata qui, nella solita Africa-odi-et-amo. Ho perso il conto delle volte in cui, l’Africa ed io, ci siamo battute in una sorta di duello immaginario. Ma per questa volta facciamo che Africa 1 – Cristina 0. Perché questo è stato un regalo veramente grande.
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2h20minuti dopo la partenza, taglio il traguardo. Mi butto a terra. Ce l’ho fatta.
6 ore dopo essere atterrata a Kinshasa, varco la porta di casa, a Luanda.
Sono quasi le 3 di notte. Nello zaino ho la medaglia commemorativa.
Cristina, Angola
Cristina ha collaborato con Amiche di Fuso da marzo 2016 a novembre 2019
Potete leggere Cristina qui
complimenti per l’impresa e grazie per questo tuo racconto che mi ha veramente emozionato!
Grazie Claudia! E’ stata un’emozione davvero fortissima per me, sono contenta di essere riuscita a trasmetterla almeno un po’!
Che bel racconto!! Emozionante! Non sapevo che la corsa fossw anche questo!
Grazie Sara! Eh sì, questo è il lato bello! Il motivo per cui non avevo mai corso prima (oltre alla convinzione che ‘no, non ce la posso fare’), era il fatto che reputavo la corsa un’attività noiosa. E in effetti è vero, l’allenamento non è proprio il massimo: in solitaria (e se in gruppo, quasi sempre in silenzio per risparmiare fiato), un’ora o più a fare in fin dei conti la stessa cosa… Non è il classico sport ‘divertente’, ecco. Almeno per come la vedo io. Poi però capitano avventure come questa e allora rimetti tutto in prospettiva!
Non me lo spiego, ma, leggendo, mi sono commossa.
Non sono una sportiva e la corsa proprio non mi ispira (non ho fiato, non ho resistenza, mi annoio…); eppure mi hai fatto quasi venire voglia di iniziare
Complimenti per il tuo traguardo!
A quando il prossimo?
Ciao Laura! Provaci 🙂 Cominci piano, con pochi km e… poi chissà!
A me è successo proprio così!
Potrei ripetere quello che ha scritto Laura: non sono una sportiva etc. Etc. Ma ho letto tutto d’un fiato quello che hai scritto. Brava! Brava! Brava! L’ho già letto anche a Gin che sta dettando la sua risposta. Di certo io però non sono più in età da cominciare. Brava! Brava! Brava! Sei sorprendente. Ciao
Grazie Renata! Sono molto felice che questo articolo – che cmq tratta un argomento un po’ di nicchia – sia invece arrivato a tanti! Grazie a tutti voi x i commenti!
Ciao di nuovo. Ma riporto le parole di Gin: wow, mi piace sempre più come scrivi. Mi sembrava di essere lì con te partecipando alle tue emozioni. Correvo anche io una volta, sai? Come dico io *nella mia prima vita*, cioè prima della malattia. Ma, c’est la vie! Ciao