Che cosa sono le ferie?
È la domanda che mi sono fatta mentre guardavo il Tirreno allontanarsi dal mio finestrino, una macchia blu zaffiro presto cancellata dal bianco compatto del limbo tra cielo e terra. Le ferie sono un modo per ricaricarsi, mi sono detta. Certo, ovvio che lo sono.
Una maniera per accumulare le energie mentali che mi serviranno una volta tornata alla mia vita di sempre, con i suoi alti e bassi, con la sua lista di cose da fare troppo lunga alternata a meravigliosi momenti di pace. Sicuro anche questo. Ultimamente, però, le ferie per me sono soprattutto ciò che fa partire quei meccanismi di ragionamento che avevo archiviato da qualche anno.
Sarà la saggezza dell’età , non lo so (ok, ok, forse quella no). Sarà che vedere la mia famiglia e i miei amici d’Oltremanica due volte l’anno non mi basta più. Fatto sta che ogni partenza è un vero e proprio funerale, ormai. Gli ingredienti ci sono tutti: magone, bruciore di stomaco, notte insonne, affanno, lacrime delle mamme (e pure dei babbi, a volte). Le mie prime ferie di quest’anno, ad esempio, sono state composte da giorni intensi, una parentesi idilliaca in cui il cuore ha fatto male un po’ di più all’avvicinarsi del fatidico momento che mi avrebbe vista salire sull’aereo del rientro e salutare scorci e volti a me cari.
Sono state ferie di abbracci stretti e lacrime nascoste in una tasca invisibile dietro gli occhi, pronte ad uscire indiscrete quando di discrezione non ce n’è stato più bisogno. Sono state l’affetto che mi lega alle persone che lascio nel posto che chiamerò sempre casa, in Italia. Un dono prezioso per riscaldare i giorni che io e loro passeremo lontani. Sono le parole non dette, di quelle che dal cuore premono per poter uscire, ma che vengono messe a tacere dalla necessità delle formalità . E sono infine le pagine, tante, scritte per dar sfogo a una confusione che si rinnova a ogni partenza, ogni volta più forte, ogni volta meno comprensibile della precedente.
Non so se sono più in grado di reggere i terremoti emotivi portati da questa mia vita a metà . Ma devo, e so anche che, come i miei amici sul suolo inglese che vivono le mie stesse sensazioni ogni volta in cui devono salutare il loro paese natio. Troverò sempre un modo per riuscirci. Invidio quelle mie amiche che, nonostante tutto, sono riuscite a trovare un loro equilibrio nel disequilibrio, a sopravvivere e ad essere serene in una realtà che non ci apparteneva, ma che pure abbiamo fatto nostra grazie a tanto lavoro, tanta resilienza, costanza e pazienza.
Intendiamoci: amo l’Inghilterra per un milione di ragioni; a volte la amo più dell’Italia. Ma, per una serie di motivi, ultimamente non riesco più a sentirmici del tutto a casa. Da quando è iniziato il caos della Brexit, poi, le poche certezze che mi avrebbero garantito quel passo in più lungo la strada dell’acclimatarmi e del sistemarmi si sono quasi del tutto frantumate. Frantumate sotto la minaccia del trovarmi da un mese all’altro costretta ad abbandonare la nave chiamata UK.
E prima che qualcuno mi salti alla gola ripetendo la solita frase (“che dici, mica ci possono cacciare!”), preciso subito che non è all’essere cacciati che penso quando dico che potremmo trovarci di fronte alla scelta sul se restare o no. Estratti conto alla mano, da giugno 2016 il costo delle spese di routine è aumentato, e a volte di brutto, ecco. Affitto, bollette, benzina. Perfino Aldi oggi costa quanto Tesco due anni fa – pur rimanendo uno dei meno cari. In fondo, questo Paese importa praticamente di tutto ed esporta principalmente servizi che le aziende più lungimiranti hanno già spostato sul continente.
Ma torniamo all’argomento originario: le ferie. Anzi, i rientri dalle ferie. Quella fase costruttiva-distruttiva che ti fa fare le ossa e allo stesso tempo ti annienta per tutto il viaggio di ritorno e, a volte, anche oltre. Tutto dipende da come sono stati i giorni passati a casa. Personalmente, se sono riuscita a non discutere con Mater neppure una volta. Ad avere almeno una giornata di sole e cielo blu, mangiare 10 pizze, 3 lasagne e 100 gelati. Vedere tutte le persone a me care almeno una volta, beh, su quell’aereo mi ci dovrete trascinare con un argano. Che poi mi pare quasi di vederlo, quell’omuncolo invisibile e sadico chiamato dovere che, con un ghigno, dalla cima della scaletta tira la fune e mi fa salire a forza i gradini che spariscono nella pancia della fusoliera (all’andata sedevo alla fila 1, ho visto dal vivo come funzionano… una figata).
Nel momento in cui l’aereo decolla, io so che una fetta di cuore è rimasta a terra, a volte a centinaia di chilometri da quell’aeroporto, e la metà di cuore che mi rimane in petto brucia come se fosse una mano di fuoco a spremerlo e a farlo pompare. Poi, dal momento in cui varco la porta di casa a Manchester, tutto torna come era prima di partire.
La mia routine inglese ricomincia e giorno dopo giorno torno ad essere assorbita nel tessuto sociale e lavorativo della mia città d’adozione. Mi vedo coi miei amici, esco, vado a fare spesa, insomma, riprendo la mia vita di sempre, coi suoi ritmi spesso folli. Perciò ecco che poco a poco sto imparando a sopravvivere tra un ritorno e l’altro, ad aspettare il giorno in cui salirò di nuovo su un aereo, il momento in cui dal finestrino vedrò le costa del nostro stivale lungo cui sono nata.
E quello che succede nel mezzo? Beh, quello che succede nel mezzo è un’altra vita.
Juana, Inghilterra
Juana, questo articolo potrei averlo scritto io. Ma quella vita che c’è in mezzo, tra una partenza e l’altra, vale più di tutto il resto.
Concordo. Quella che c’è nel mezzo è la vita che abbiamo scelto e che, per forza di cose, deve privarci di qualcosa per poi darci dell’altro…