Chi non ricorda la difficoltà dei primi mesi in un nuovo Paese? La barriera linguistica in primis. La distanza fisica dalle persone a cui vuoi bene. E, se non si è partiti in coppia, la solitudine. Oggi ce ne parla Celeste, in un post fresco e riflessivo in cui molte di noi si rispecchieranno. Soprattutto chi lo sta ancora aspettando, quel giro di boa, o chi ricorda bene quando ha potuto permettersi di rilasciare la mandibola per la prima volta. E sì, c’è anche una bellissima riflessione sull’Europa, la nostra patria allargata. Arigatō, Celeste, e buona fortuna per il tuo rientro in Europa!
Liceo Classico e Linguistico Statale Francesco Petrarca, classe 2006. Fresca di maturità, mi sembrava riduttivo specializzarmi in un’unica area di conoscenza, e mi iscrissi a matematica. Faticai non poco con questo salto, ma al terz’anno, quasi fosse una ricompensa, arrivò l’opportunità di partire per l’Erasmus in Svizzera. Sempre curiosa di Altrove, scrissi la tesi per la Laurea Magistrale in Francia. In matematica pura, poiché era l’ultima occasione per divertirmi un po’, prima di andare a fare qualche “lavoro noioso e pratico”. Infatti, pensavo, che il dottorato di ricerca fosse roba per quelli intelligenti, quelli con “talento”. Già avevo sentito la storia che non esistono i geni, che esiste solo l’impegno, di fronte al quale iniziali facilità innate di alcuni si livellano presto, ma una parte di me continuava a dire: “sì, ma tu sei troppo stupida. L’ha detto pure quel prof di fisica, che ti vedrebbe meglio a lettere”.
E poi, mi venne offerta la possibilità di fare un dottorato in matematica a Caen, in Normandia. Colpo di scena. E che faccio? Vado, che per il “lavoro serio” c’è sempre tempo dopo.
Fu così che due anni dopo mi trovavo in piena stesura della tesi di dottorato, facendo candidature di posizioni post-dottorali (postdoc) in tutto il mondo, temendo che nessuno mi avrebbe voluta. Ogni anno molti neodottori lasciano la ricerca, già disillusi; altri ci provano, ma non riescono a saltare sul gradone del Primo Postdoc. Convivevo con il mio compagno, spagnolo, conosciuto come compagno di dottorato, che sarebbe rimasto un anno di più a Caen.
Due mesi prima di discutere la tesi, e della fine del mio contratto con l’Università di Caen, avevo già accettato un contratto di insegnamento e ricerca di 10 mesi all’Università di Grenoble, con molto insegnamento, ma non troppo. Con il pregio di essere vicino a Caen, a casa. E ricevo una chiamata. “È ancora interessata al postdoc JSPS a Osaka?”. Oh caspita, ormai quello l’avevo dato per perso. Due anni di contratto. Due anni! Un lusso, un’eternità! Il doppio di paga, la possibilità di vivere in un paese tanto diverso da quello che conoscevo.
Respiro profondo.
Discuto la tesi, metabolizzo l’idea di passare dalla convivenza ad una storia a distanza – di quelle che non hai idea di dove e quando tornerete a dividere un tetto, svuoto la casa delle mie cose, quest’asciugamano è mio, questo è tuo, questo è mio ma lo lascio qui che non si sa mai (e che portar via pure questo potrebbe spezzarmi il cuore). Studio i due alfabeti fonetici giapponesi con il supporto del mio meraviglioso compagno che imparava insieme a me. Passo un paio di settimane nella mia Trieste natia, faccio il richiamo del tetano, mi spavento di non aver tempo di fare il vaccino per l’encefalite giapponese. E infine sbarco in Giappone, senza saperne nulla. Con il mio compagno al mio fianco per le prime due settimane.
Prima di vivere in Giappone, avevo già una vaga sensazione di cosa fosse l’identità europea. In fin dei conti, faccio parte della generazione Erasmus. Ho iniziato a viaggiare quando bisognava fare il modello E111 all’ASL per l’assistenza sanitaria all’estero, reso inutile dalla Tessera Sanitaria Europea. Ho preso crediti universitari per aver fatto la patente europea del computer. Alcune mie compagne di classe hanno ritardato di un anno l’università per fare il Servizio Civile Europeo, e nel 2006 ho festeggiato il giorno in cui si sono abbattuti i caselli della dogana tra Italia e Slovenia. Proprio lì, a due passi da casa, prima si faceva la coda per mostrare il documento e si cambiavano gli euro per talleri, e poi la frontiera è diventata un luogo puramente simbolico di divisione invisibile tra due identità nazionali. Noi e i nostri vicini eravamo parte di una stessa cosa.
Ma solo una volta arrivata in Giappone ne ho colto un’essenza più profonda, che non so descrivere in parole. Ma mi fa sentire più vicina ad un olandese che ad un americano, e ancor più che a un giapponese. Ho iniziato a sentirmi orgogliosa di essere europea.
Ci ho messo 8 mesi buoni per non sentirmi come un alieno appena sbarcato in Giappone, e già dalle prime settimane mi era parso chiaro che la capacità di capire il contesto in cui mi trovavo non poteva più passare dal linguaggio. Mi è parso lampante nel momento in cui ho comprato una bicicletta di seconda mano in una specie di vecchio garage buio, da un vecchino che non parlava neanche una parola d’inglese, senza usare parole. Facendo pure la registrazione ufficiale del mezzo al ward office. 1-0 per la comunicazione non verbale.
Ho passato mesi a lavorare meno di quanto volessi perché ogni mattina arrivavo in ufficio e la mia testa era piena di “come si fa questo in Giappone?” “perché i giapponesi fanno questo?” “perché mi domandano sempre quello?” “cosa pensano delle donne ricercatrici(ovvero, mi evitano perché sono io e faccio qualche errore, o perché sono una donna, e per giunta straniera)?” e ogni giorno, mille perché e percome. Che soddisfavo assorbendo più informazioni possibili da forum, blog di altri expat, dalle notizie di News on Japan e del Japan Times.
Per mesi ho stretto i denti, prima in modo figurato, e poi in modo sufficientemente letterale che il mio dentista, con l’aiuto di Google Translate, mi ha fatto capire che avevo bisogno di un bite per dormire (sì, giuro che a un certo punto uno rinuncia a capire tutto quello che lo circonda, tanto che si fida di un dentista con cui non sa comunicare più di quanto Tarzan comunicava con Jane al loro primo incontro. E nel paragone, io sono Tarzan).
Stringevo i denti per tenere tutto insieme. Per mostrare che ero in grado di lavorare nonostante l’ambiente ostile, risolvere le praticità quotidiane, far assomigliare la mia stanza alla guesthouse per ricercatori ad una casa. Per capire come installare la messa a terra del microonde nuovo, trovare un ortopedico che parlasse inglese, aggiustare la mia relazione dalla fase convivenza alla fase 16.000km e 8 ore tra noi, rassicurare amici e parenti su Skype.
Che tutti si aspettano tu dica “che figaaaata vivere in Giappone, è il posto più bello del mondo e io non sono mai stata meglio” altrimenti non possono stare tranquilli per te. Altrimenti sembra sia colpa tua se li fai stare in pensiero. Perché tutti lo sanno che il Giappone è bellissimo, curioso, e tutto funziona, devi essere tu che hai in problema di atteggiamento se non sei al settimo cielo. Che poi, diciamocelo, se anche il Giappone fosse un paese meno difficile cui adattarsi, pretendere che una persona che vive in un continente diverso dalla persona che ama sia sempre felice e contenta e ti racconti delle gioie della sua vita, è da miopi.
Ho scelto questa situazione perché sembrava e tutt’ora sembra un sacrificio di quelli che valgono la pena, con l’obiettivo di avviare una carriera che più avanti mi permetterà di vivere bene e in una situazione più felice. Ma chi si stupisce se non sembro sempre spensierata, come se il mio cuore non vivesse 8 fusi orari più un là, beh, tu non sai cos’è l’amor.
Per mesi ho funzionato in modalità sfida. E poi, d’un tratto, dopo le stagioni dei kaki, delle fragole, dei ciliegi, delle piogge, degli scarafaggi, delle cicale….è arrivato il giro di boa del primo anno. Attorno a quella data mi sono trovata, per la prima volta, a passeggiare nel mio quartiere, oggettivamente un pugno ad ogni concezione estetica, e sentirmi in pace, con voglia di passeggiare con calma e approfittare del sole della domenica pomeriggio.
Attorno alla stessa data mi sono accorta che, pur senza aver studiato giapponese con disciplina, non mi trovavo più in situazioni in cui non riuscivo davvero a capire o farmi capire. Non mi capitava più di rinunciare a fare o chiedere qualcosa giusto per evitare situazioni di incomprensione.
Questa sensazione di assestamento avvenuto è durata da settembre a inizio novembre (il primo novembre è il mio anniversario di arrivo), e poi è fiorita nella fase del riconoscimento. Ho iniziato a riconoscere dettagli socio-stagionali che hanno popolato le immagini dei miei primi mesi qui. Ad esempio, in dicembre ho riconosciuto il momento in cui i kaki lasciano il posto alle fragole e alle torte di fragole e panna.
Allo stesso tempo ho iniziato a notare cose che dovevano essere state lì pure l’anno prima, come le decorazioni tradizionali di capodanno per la casa, che si trovavano OVUNQUE, pure al mio supermercato solito. Eppure il primo anno giuro che non le avevo registrate. E così per varie cose, come se il mio cervello, al primo giro, mi avesse nascosto le cose che non ero in grado di assorbire. E ora che ero pronta, mi permetteva di vedere.
In quel periodo ho iniziato a sentirmi più ingranata. La signora del kombini mi diceva “da quanto tempo!” quando mancavo da un po’, e mi faceva sentire una di qua. E ho realizzato di avere attorno una bella rete di conoscenze, amicizie ed abitudini costruite dal nulla, dalla solitudine più assoluta.
Resta la consapevolezza che in questo paese sarò sempre diversa. Mi si guarderà fisso, si cercherà di farmi foto neanche tanto di nascosto, si lascerà libero il sedile accanto a me sulla metro, chenonsisamai. Mi si elogerà per le abilità linguistiche ogni volta che dirò “ciao” in giapponese. Dovrò rispondere almeno una volta alla settimana al “ma mangi il sushi?”. Sorridere alle conversazioni che invariabilmente iniziano con “Quando vai via dal Giappone?”.
So che per me questo posto è andato bene per un po’, ma quando verrà il momento di trovare
una patria “definitiva” vorrei fosse in Europa. Fra qualche mese sarà tempo di traslocare di nuovo, ed effettivamente un paese europeo dovrebbe essere la mia nuova destinazione, anche se ancora non sarà definitiva, e neanche per molto. Ho un intenso bisogno di stare più vicina all’uomo che amo, forse non subito nello stesso posto, sufficientemente vicina da poter riscoprire una vita di coppia un po’ meno fuori sincro.
Sarà probabilmente un paese che già conosco, forse il paese dove ho vissuto più vita adulta che in Italia. E se questo pensiero mi fa respirare in modo più ampio, come se avessi più spazio nei polmoni, mi fa tirare il fiato e rilassare la mandibola, c’è una parte di me che sa che sentirà la mancanza del poter vivere quotidianamente la modalità sfida.
La mia curiosità, come credo quella di ogni expat di lungo raggio, credo si sia assuefatta allo stimolo continuo dello scoprire cose nuove, di imparare come si fa. Ma dato che la curiosità resta uno dei miei motori principali, posso pure dire che sono pure molto curiosa di cosa succederà in nella fase di rientro tra gli expat di corto raggio.
Celeste, Giappone.
Grazie mille per aver pubblicato i miei deliri 🙂
Ne vado molto orgogliosa, questo blog è una delle cose che mi hanno dato coraggio e regalato sorrisi in questi mesi!
Analisi molto dettagliata e spietata, ma assolutamente affascinante: sono una tua concittadina, ho conosciuto e amato Caen e ho gli occhi a cuoricino quando mi si parla del Giappone (sarà il mio ramo di parentela acquisita, nipponici doc, ma già di mio ero nippodipendente anche prima) e questo post l’ho divorato perché va oltre quello che può essere una mera descrizione filoturistica. Avrei sempre voluto volare alto ma per motivi familiari (e poco coraggio di andare controcorrente, lo ammetto) ho sempre volato basso. E ora non so se ho agito per il meglio. Ma leggere dei post come questi mi apre il cuore.
Buona fortuna e continua a correre con la vita!
Grazie Tatiana!
Bellissimo post! 🙂
4gs2mh