Doverosa premessa: ho vissuto a Hong Kong, Tokyo e Taipei, e viaggiato in vari Paesi di questo continente immenso. Non pretendo di essere esaustiva, non avendo materialmente potuto vedere moltissime cose. Ormai però vivo la mia Asia e le sue contraddizioni da sette anni, ho conosciuto molte persone e vissuto alcune realtà, e mi sono fatta un’idea su alcune cose.
Questa volta non voglio raccontarvi di cosa mi piace, cosa amo e cosa detesto, di come vivo qui o cosa mangio. Non parlo di cosa succede dentro, ma di chi sta fuori: delle tante persone che ho conosciuto, di persona o virtualmente, e che desiderano venire qui. Questo post nasce dalle tante domande cui ho risposto, dai tanti post FB letti.
Di tutti i posti in cui ho abitato, il Giappone e Tokyo andavano per la maggiore. Ma so che, come mi dice la mia Amica di Fuso Monica, anche l’India va forte (per motivi ovviamente molto diversi). Oltre all’India, anche Bali, la Thailandia… Spesso questo desiderio è alimentato da viaggi, vacanze, letture. E se da un lato questo desiderio di scoperta e di vivere in un altro Paese, completamente diverso dalle nostre tradizioni, è segno certamente di curiosità e desiderio di scoperta, dall’altro moltissimi non capiscono davvero dove stanno andando, o meglio, verso dove si stanno imbarcando.
Non sono famosa per essere una persona concreta e con i piedi per terra, ma credo che in molti casi il buon senso dovrebbe guidarci; e invece mi sbaglio.
Molti Paesi di questo continente possono essere davvero difficili: senza un pacchetto adeguato e/0 le necessarie precauzioni possono addirittura diventare pericolosi. Ad esempio, in molti Paesi asiatici non esiste un sistema sanitario nazionale, ma in compenso ci sono malattie infettive debilitanti: dovete aver modo di curarvi con una buona assicurazione. Se poi avete bambini, il discorso si amplia ancora.
Siete in culture lontane dalla vostra, non solo per cibo, clima e abiti, ma anche per modo di comunicare, di discutere e di affrontare situazioni differenti. Quello che per voi è normale può essere offensivo per un cinese, un thailandese o un indiano.
E soprattutto, siete fuori dall’Europa, questa Europa che spesso sento criticare, ma alla quale dobbiamo una serie di comfort non da poco, uno su tutti: l’esenzione da visti. E non parlo solo di viaggi, ovviamente.
Ricordo ancora la faccia strabiliata delle mie colleghe, ad Hong Kong, quando raccontai loro che in Europa, avessi trovato un lavoro, che so, a Londra, Parigi o Amsterdam, mi sarei potuta trasferire in pochi giorni, senza bisogno di particolari pratiche burocratiche (se non quelle solite relative ad ogni trasferimento). Senza paura di essere rejected alla richiesta di visto. Ma il visto di lavoro, come si ottiene? questa la domanda più frequente, sia ad HK che a Tokyo che a Taipei.
Nella realtà e nei vari gruppi FB mi capitava di leggere spessissimo messaggi da Italiani che dicevano più o meno “sono appassionato di Giappone, ho iniziato anche a studiare giapponese, secondo voi che pratiche ci vogliono per venire a vivere a Tokyo? Io verrei anche a fare qualsiasi lavoro!”.
Ecco, già quel qualsiasi lavoro stona. Perchè in Giappone (come a Hong Kong, a Taipei e in molte altra realtà) non prenderanno te a lavorare al Seven Eleven, o a fare il meccanico o la segretaria. Anche se parli Giapponese (o Cinese o varie). Perché dovrebbero se c’è un local che lo può fare?
E purtroppo (e lo dico a malincuore, perché sono una persona che spesso segue e ascolta le proprie passioni e soffre quando non è possibile farlo, anche quando non lo è per gli altri), anche quel sono appassionato non è molto d’aiuto. Perché purtroppo non basta nella maggior parte dei casi. A differenza dell’Europa, il permesso di lavoro viene concesso solo a skilled foreigners, cioè a persone che si pensa possano apportare qualcosa in più in azienda, e che non vengono trovate tramite ricerca in loco. Parliamo dunque spesso di posizioni di alto livello, oppure di quelle posizioni in cui vi è la capacità oggettiva di fare qualcosa che difficilmente si troverà presso la popolazione locale (ad esempio, i mestieri della ristorazione, come l’Italian Chef).
E dunque: differenza di cultura ed educazione, necessità di essere specializzato in qualcosa di spendibile sul territorio, spesso (nel caso del Giappone) anche la conoscenza della lingua è gradita.
Non si può venire in Asia cosí per fare, non si viene in Asia per “fare qualsiasi cosa”, o perché è affascinante, perché suoni e colori e sapori sono esotici e ci piace l’idea di lavorare qui, o perché si ha ancora il mito di aprire il baretto sulla spiaggia. L’Asia è affascinante quando ci si viaggia per vacanza, ma viverci è un’altra cosa. Banale? Sí, ma sembra sempre bene ripeterlo.
Il mio non vuole essere un attacco a chi cerca di farcela: spesso sento questo rimprovero (“Eh, voi che siete lí invece di aiutare cercate di scoraggiare gli altri, tipico degli Italiani” è una frase che ho sentito davvero), ma non è quello il punto.
Noi qui siamo stati mandati, dunque la mia scelta personale si ferma ad un certo punto ed iniziano le dinamiche aziendali. Nessuno vi impedisce di cercare di realizzare un sogno o una prospettiva lavorativa migliore, nessuno cerca di scoraggiarvi per tenersi stretto qualcosa (ma cosa poi?). Semplicemente, un consiglio: l’Asia rimane il continente misterioso, la Terra di Mezzo e il Sol Levante, ma bisogna fare attenzione. Le vacanze sono vacanze, e i romanzi anche.
Veronica, Taipei
Bellissimo post Veronica. Capisco poi che chi come voi è finito in Asia mandato da aziende ne sappia poco di come immigrare in maniera diversa…
Io comunque mi accontento di un visto turistico e prima o poi verrò a trovarti!