La mia bisnonna materna aveva una latteria. I miei nonni materni una drogheria. I miei nonni e zii paterni una macelleria. Si può proprio dire che sono figlia di commercianti, nata e cresciuta tra una bottega e un negozio. Ricordo i sabati passati nel negozio dei nonni, ricordo la merce esposta in bell’ordine sugli scaffali, ricordo il vetro tirato a lucido delle vetrine, ricordo il retrobottega buio. Quando ero bambina era un mondo che mi era molto famigliare, ma allo stesso tempo era un mondo per me estraneo. Era un mondo in cui ogni tanto mi rifugiavo, un mondo in cui a volte giocavo, ma di cui smettevo di fare parte nel momento in cui oltrepassavo l’uscio del negozio.
Ero ancora ragazzina quando anche l’ultimo negozio di famiglia è stato venduto e, da quel momento, pensavo di aver chiuso per sempre con il mondo della vendita al dettaglio. E così è stato per circa 10 anni, fino a quando non ho deciso di trasferirmi in Australia.
Sono entrata nel paese con il visto vacanza-lavoro che ogni anno permette a centinaia di migliaia di giovani di vivere e lavorare in Australia per un anno. E fin qui tutto bene. Il problema è che questo visto ti permette di lavorare con lo stesso datore di lavoro solo per 6 mesi. Morale della favola: dopo 6 mesi ti devi licenziare e trovare un nuovo lavoro. Conscia di questo limite, avevo già messo in conto che trovare un buon lavoro non sarebbe stato facile. Ero pronta a fare lavori umili e a rimettermi in gioco, ero pronta a ricominciare da zero.
E così è stato. Pur con zero esperienza ho trovato subito lavoro in un caffè e per i successivi 6 mesi ho lavorato 5/6 giorni alla settimana dietro il bancone. Ho imparato a fare i caffè più improbabili, ad affettare i salumi ed a preparare panini improponibili, ho imparato a riconoscere torte dolci e salate. Ho appreso a fare di cassa, ho imparato a ricevere e preparare gli ordini, così come ad organizzare un magazzino. Ho imparato a pulire una cucina commerciale ed un negozio ed a rispettare standard igienici sia dettati dalla legge che dal buon senso. Ho imparato a relazionarmi con clienti gentili e pazienti e ad essere diplomatica con clienti maleducati e sgarbati, ho imparato a collaborare con le mie colleghe, sono stata ricettiva per imparare da loro ed io stessa ho saputo insegnare.
Sono stati sei mesi facili e difficili allo stesso tempo. Mesi in cui ho usato poco il mio cervello e molto il mio corpo. Sei mesi in cui mi sono dovuta adattare a moltissime cose e imparare ancora di più, in cui ho scoperto una me stessa che non conoscevo. E dopo i primi sei mesi ne sono seguiti altri sei, sempre nel mondo della ristorazione, sempre dietro al bancone. Altri sei mesi a servire clienti e tagliare pizze, altri sei mesi a fare caffè. Ad imparare nuovi standard di pulizia e a sopportare. Altri sei mesi a mandare giù bocconi amari e ad essere considerata la feccia della feccia. A essere sfruttata, sottopagata e umiliata. Altri sei mesi che non avrei mai voluto fare, perché mi hanno davvero messa alla prova.
Non pensavo e non penso di essere superiore a nessuno solo perché ho avuto la possibilità di studiare. Non pensavo e non penso che il lavoro di commessa sia inferiore a quello di un’impiegata. Pensavo e penso che ogni lavoro abbia i propri pro ed i propri contro e che ogni lavoro richieda le proprie competenze. Non possiamo fare tutti ogni tipo di lavoro. Ad ognuno il suo. Ed è proprio in quei dodici mesi che ho capito che il lavoro nella ristorazione non faceva per me. Perché non riuscivo a stamparmi sempre un sorriso sul volto, soprattutto quando avrei voluto solo piangere. Perché non riuscivo a fare la faccia bella con clienti che mi trattavano come un panno sporco. Perché non riuscivo a pulire sul pulito, o peggio, a pulire dietro a persone senza un minimo di rispetto. No, decisamente il lavoro di commessa/cameriera non faceva e non fa per me. E tanto di cappello a chi ne fa una carriera, perché è davvero più difficile di quello che sembra.
E così mi sono buttata su altro. Ho voluto con tutta me stessa appendere il grembiule al chiodo e trovare un lavoro che mi gratificasse. Alla fine ho cercato e trovato un lavoro come insegnante di lingua. In una scuola privata in cui adulti e bambini hanno la possibilità di imparare uno tra i 12 idiomi stranieri attraverso metodi accelerati. Un metodo di insegnamento e apprendimento che non mi era assolutamente famigliare e che ha comportato quindi le sue sfide. Anche in questo caso, nonostante io fossi madrelingua, ho dovuto ricominciare da zero: ho dovuto apprendere ad insegnare ed a conoscere veramente l’italiano, ho dovuto soprattutto insegnare ad apprezzarlo e ad amarlo. Idem con il francese, lingua che sicuramente non padroneggiavo poi così bene. Con alunni che andavano dai 5 ai 92 anni, con studenti-studenti e studenti-lavoratori, alcuni portati altri meno dotati. Insomma il mio percorso come insegnante è stato tutto in salita.
Ci sono stati miglioramenti e peggioramenti, ci sono state salite e discese, ostacoli e soddisfazioni. Tante soddisfazioni che per 6 mesi mi hanno resa fiera e felice del lavoro che ho svolto.
E infine è arrivato il dottorato di ricerca, che occupa la mia vita da due anni e mezzo a questa parte. È arrivato il lavoro solo di testa, il lavoro che mi tiene ancorata alla mia scrivania tutto il giorno, ma che mi esaurisce mentalmente. Il lavoro che mi fa avere una firma tutta mia e un titolo pregiato, seppure in progress. Il lavoro che ha finalmente fatto smettere a mia madre di chiedermi quando rientro in Italia. Il lavoro per cui i miei parenti si vantano con i conoscenti, per cui ricevo complimenti e lodi. Il lavoro che comunque non mi fa sentire in nessun modo superiore a nessuno. Anzi, è una professione che forse è un po’ overrated e che a volte mi fa sentire inadatta. Un lavoro che non è mai stato nel mio orizzonte e che è sempre stato il mio piano B.
Insomma, sono qui, con un lavoro di tutto rispetto, invidiato e stimato. Io però che sono adesso qui dietro questa scrivania, davanti al mio bel PC, non dimentico il mio percorso. Il mio cammino di crescita che in questi 4 anni di Australia mi ha portato, dal servire caffè e pulire il bancone, a fare ricerca e scrivere articoli per giornali accademici.
L’Australia per me è anche questo. Un percorso alla scoperta di me stessa, dei miei limiti, e dei miei talenti.
Perché l’espatrio è anche e forse soprattutto questo. È un rimettersi in gioco, un riscoprirsi e un reinventarsi, un ricominciare da zero. Sempre e comunque con umiltà.
Claudia, Australia
Claudia ha collaborato con Amiche di Fuso da dicembre 2014 a novembre 2019.
Potete leggere Claudia qui
Condivido pienamente. Se non si è disposti a mettersi in gioco e, soprattutto, con una buona dose di umiltà, allora l’espatrio sarà solo sofferenza. L’espatrio non deve essere una fuga, ma un percorso, non sempre facile (di solito noi expat ce lo complichiamo sempre), ma ricco di esperienze. Questa è la chiave del successo, qualunque carriera si voglia intraprendere.
Hai proprio ragione, Alice. Non si puo’ emigrare e aspettarsi di essere automaticamente in cima. Per alcuni e’ cosi’, ma per la maggior parte di noi e’ un percorso tutto in salita!
Ciao Claudia, mi sono riconosciuta tantissimo nel tuo background famigliare visto che anch’io avevo nonni e genitori commercianti (latteria, drogheria e poi calzature). Amavo e allo stesso odiavo servire i clienti e poi, esattamente come te, ho deciso che ne avevo abbastanza e mi sono rimessa in gioco sia in Italia (come insegnante di lingua) e qui in Galles con una nuova laurea in scrittura creativa. E’ bello seguire i propri sogni ed essere in grado di realizzarli! L’unica cosa che non ho capito di te e’ cosa fai ora. Dottorato di ricerca in? Qual e’ la tua professione oggi in Australia? Ciao, Lx
Ciao Laura. Mi fa piacere che anche tu alla fine abbia trovato la tua strada. Io sto facendo un dottorato di ricerca in giurisprudenza sul tema dei bambini soldato. Sono all’ultimo anno, e spero poi di riuscire a trovarla questa benedetta professione! 🙂
Davvero interessante, ‘challenging’ e piu’ che mai attuale il tuo dottorato. In bocca al lupo per il futuro…. i sogni si avverano sempre, basta crederci 😉
In generale sapersi adattare e non sentirsi arrivati dovrebbero essere regole generali che valgono per tutti, non solo per chi espatria… 🙂
Assolutamente vero, Gilda! 😉 Claudia
Complimenti per il tuo percorso!! Quindi hai vinto una schoolarship? Mi interessa molto, anche io mi sto informando per un dottorato in Australia e il discorso borsa di studio influisce molto..per ovvi motivi economici 🙂 ma alla fine noi donne se vogliamo una cosa andiamo e la prendiamo 😉
Ciao Marta. Sì, ho vinto una scholarship per il dottorato. Non me lo sarei potuta permettere altrimenti!!!! In bocca al lupo! Claudia
[…] Claudia ci ha raccontato la sua vita in Australia accanto a colui che, proprio nel corso di quest’anno, è diventato suo marito. Ci ha raccontato di come non sia stato tutto così facile nonostante lui fosse australiano e che, tutto quello che ha ottenuto, se l’è guadagnato con volontà e determinazione, anche accettando lavori che non facevano per lei. Come ci racconta nel suo post “Ricominciare con umiltà”: […]
[…] stupirsi quindi che quando mi sono trovata a dover scegliere in quale città svolgere il mio dottorato di ricerca io abbia optato per […]