Con tutta la buona volontà di voler esser positive, di voler guardare al bicchiere mezzo pieno, di volersi integrare, di voler stare bene, non sempre vivere all’estero è un miglioramento: accade che vi siano luoghi dove, indipendentemente dal tempo trascorsovi, non si sta e non si starà bene come nei posti precedenti o in quelli successivi.
Vivere all’estero comporta una serie di sacrifici che solitamente sono compensati finanziariamente, emotivamente o sotto forma di investimento per il futuro, o un mix di tutte queste cose insieme. Ma cosa succede quando il trade off non è così percepibile? Quando i sacrifici emotivi sembrano sproporzionati rispetto ai vantaggi dello spostamento?
Nella mia esperienza di itinerant expat (Bruxelles, Ginevra, Varsavia), è un dato di fatto che io e Houston non siamo fatte l’una per l’altra: tutti i motivi per non amarla, che mi intristivano prima della partenza, si sono confermati arrivata qui.
Non siamo più novellini (mio marito ha anche vissuto e lavorato prima che ci conoscessimo in UK e USA) e quando analizziamo le possibili destinazioni che le offerte lavorative implicano, siamo ormai rodati, veloci e pratici nel farci un’idea di come si vive, di quanto costa, delle differenze culturali, di quali sono i pregi e i difetti della vita in loco, dei sistemi scolastici e dell’influenza che questo tipo di mondo potrebbe avere su di noi e soprattutto sulle nostre figlie.
In aggiunta alle mie previste difficoltà mentali e pratiche nel vivere negli Usa, in Texas e a Houston, se ne sono aggiunte altre, meno rilevanti ma sempre scoccianti, nel piccolo quotidiano. Gli ormoni gravidici e l’inverno più freddo e piovoso degli ultimi decenni, non mi hanno aiutato nel tenere i nervi saldi.
Scrivo questo post a distanza di sei mesi dall’arrivo qui e in procinto di partire per una lunga estate europea: un buon momento per riflettere su ciò che ho imparato nel cercare di trovare un modus vivendi per star qui senza uscire di senno; mi auguro che possa essere di conforto a chi vive la stessa situazione di disagio nel luogo in cui vive e in ogni caso mi sento in dovere di scriverlo per ringraziare tutte le persone, lontane e vicine, che hanno ascoltato le mie infinite lamentele e spesso sono riuscite a confortarmi e a farmi ridere.
Ecco quali sono stati gli steps del mio percorso interiore, sufficiente per raggiungere quel pochino di tranquillità per viver qua il tempo che sarà necessario. Sono ancora lontana dal grado di resilienza che vorrei possedere e che forse devo accettare non riuscirò mai a raggiungere finché vivrò qui, ma sto decisamente meglio.
1) Accettare di dover trovare un nuovo equilibrio e di non poter recuperare l’equilibrio perduto, ovvero in parole spicce, mandar giù il rospo. A Varsavia ero felice (elenco esemplificativo e non esaustivo): città bellissima, super culturale, avevo una densità elevatissima di amiche e amici del cuore a distanza di dieci minuti di taxi, gli zii giovani delle bimbe e i loro primi amici cari, l’asilo perfetto, la casa fighissima, l’aeroporto servito low cost con i miei a due ore di volo, stavo in centro e andavo ovunque a piedi di giorno e di notte, avevo la babysitter Marypoppins e la signora delle pulizie che la fatina di Cenerentola in confronto era una dilettante, per i miei non era faticoso venire a trovarmi.
Tutto questo a Houston non c’era e ho dovuto accettare che non ci sarà : la città non ha nulla di bello e antico e non abbastanza di bello e moderno, le amiche e gli amici del cuore sono lontanissimi, i miei anche, il mio appartamento, che è sicuramente sopra gli standard medi, è foderato di moquette e costruito in carta velina, per andare dovunque ci vuole l’auto, l’offerta culturale rispetto a Varsavia è assai meno di mio interesse, i voli saranno sempre 14 ore per tornare a casa e ogni volta che li comprerò mi verrà un infarto a vedere tutti quegli zeri, non si trovano babysitter polacche per supportarci nel bilinguismo delle bimbe, il primo asilo è stato un’esperienza deprimente, le signore delle pulizie qua costano tanto e seguono una scaletta contrattuale rigidissima. È così, e nulla potrà cambiare le cose, nemmeno battere il Guinnes dei primati di lacrime versate al minuto, come ho seriamente pensato di fare nelle prime settimane.
Prima di Varsavia la mia vita non era così spudoramente cinematografica, è stata una conquista dopo anni belli ma non semplici altrove: ero finalmente arrivata in cima alla mia montagna e dal momento in cui sono arrivata qui sono di nuovo giù sotto al punto di partenza.
Ci sono molte teorie su come fare a ingoiare il rospo. Obbligarsi a vedere solo il lato positivo, pensare a chi sta peggio, piangere fino allo sfinimento, far finta di star benissimo finché si convince se stessi. Io le ho provate a rotazione un po’ tutte. E inaspettatamente questo periodo psichedelico di sbalzi d’umore che alla mia famiglia e alle mie amiche bisognerebbe conferire una medaglia al valore dell’Ordine Supremo della Santa Pazienza, ha trovato finalmente un termine nell’evento sul quale meno avrei scommesso di esser d’aiuto.
2) Ritornare. Ritornare in Italia dai miei, ritornare a Varsavia da me, dopo 10 settimane di cuore infranto, mi ha messo davanti alla prova provata che tutto quello che mi dannavo d’aver perduto, era ancora lì ad aspettarmi, e sempre lo sarà . Ho costruito legami forti, basi solide, per questo mi mancano così tanto. Ed è per questo che sono ancora lì e lì saranno finché non tornerò. Nulla di ciò che ho seminato e a cui mi sono dedicata anima e core in questi anni a zonzo per l’Europa è perso o distrutto. Ho imparato l’importanza di non procrastinare un ritorno, se l’inizio si mostra davvero difficile: avevo paura che tornare avrebbe solo infierito ancora di più sul mio dispiacere, e invece mi ha dato quella prova di realtà che mi ha permesso di ripresentarmi qui a Houston con una nuova determinazione. Ovviamente i voli aerei non hanno cifre tenere su queste percorrenze, ma preferisco fare a meno di altri servizi e consumi e creare il budget per tornare compatibilmente con gli impegni scolastici delle bambine. Se in un posto, nonostante tutti gli sforzi, non ci si trova, tanto vale cercare di fare il pieno di benzina emotiva e tornare carichi per andare avanti fino alla volta dopo.
3) Sfruttare la benzina emotiva di ritorno. Ingoiato il rospo di essere stata spedita giù dalla cima della montagna, scoperto che tutto il mio mondo mi aspetta sempre e non mi ha cancellato, sono rientrata nell’appartamento moquettato determinata a migliorare la situazione attuale, senza affossarmi comparandola costantemente alla precedente. Odiavo guidare millemila km per andare all’asilo, odiavo l’asilo dove andavano le bimbe e lo odiavano pure loro. In teoria, secondo la relocator consultant, non c’erano posti negli asili di zona, quando siamo arrivati a dicembre. Ma questa città è piena di expat che vanno e vengono. Ho iniziato a girare palmo a palmo (in auto) nel raggio di 20 minuti di casa, segnandomi tutti i nomi di asili, cercandoli poi su google e contattandoli per una visita. Ho trovato quello che sentivo finalmente giusto per loro e anche a 15 minuti di auto da casa. Già passare tre ore meno in auto ogni giorno era un sollievo pratico, vedere le bambine finalmente serene in un ambiente scolastico, un enorme miglioramento. Ora che avevo qualche ora libera senza doverla passare in macchina, era il momento buono per iscrivermi a tutti i gruppi facebook di expat ladies da queste parti. Mi sono data un mese di tempo per trovare qualche anima affine a me in un raggio automobilistico umano: playdates al pomeriggio e morning coffees a oltranza. Le europee a Houston, le canadesi a Houston, le australiane a Houston, le francesi a Houston, le italiane a Houston… le ho provate tutte, una sorta di speed dating madrefiglie costante. E finalmente ho aggiunto qualche nome nella mia rubrica, qualche conversazione durante la settimana. Poi come sempre, aiutati che il ciel t’aiuta: totalmente per vie fortuite ho trovato un circolo di italiane che abitano più o meno nella mia zona con le quali mi sono sentita subito sulla stessa lunghezza d’onda. Un gruppo di donne che rappresentano adesso la mia rete di riferimento.
4) Organizzarsi per diminuire il nervoso. Considerato come vivevo di là dall’Atlantico, qui per come è fatta questa città , i suoi usi e costumi, è impossibile: meglio studiare come diminuire l’attrito tra il mio modo di vivere e questo luogo. Per fare un esempio pratico: detesto guidare e guidare ore ogni giorno. Ho trovato una routine di spesa dopo aver selezionato i miei fornitori di fiducia. Non ero mai stata di quelle che riempivano il frigo a giorni fissi e tantomeno il freezer, mi piaceva pensare oh vorrei cucinar questo, uscire e comprar gli ingredienti. Qui significa buttare almeno un’ora extra al volante. E in più non esiste la spesa on line. Perciò ho iniziato a compilare liste di quanto effettivamente consumiamo in casa e dopo un paio di settimane di rodaggio ho fatto occhio, adesso vado in missione al lunedì e al giovedì x i megaspesoni. Idem non sto a perdermi dietro i meandri del traffico se alle bimbe serve una maglietta o un paio di calzini: se una volta si trattava di dare un’occhiata ai negozi durante una passeggiata per commissioni normali, ora andare alla mall che ha H&M o a quella con Marshalls senza nemmeno esser sicura che poi abbian qualcosa che mi convince, richiede 40 minuti. Compro vestiario e scarpe in Europa approfittando del doppio bagaglio sui voli intercontinentali quando ogni 3-4 mesi vado giù e per le piccole cose che possono mancare mentre siamo qui, le prendo al Target dove vado a rotazione a far la spesa (i miei altri posti di fiducia sono Traders Joe’s, Fiesta e una pescheria sulla Richmond). Compro molto più di quanto abbia mai fatto prima su Amazon: preferisco avere mezz’ora da passare con le bimbe a giocare che mezz’ora in più d’auto per andare a cercare dov’è che vendono gli adattatori presa italiana – americana. Ho imparato a preparare ghiaccioli e gelati per le merende, per evitar la pena di uscire in auto a cercare dov’è che si può trovar un cono gelato buono. Così facendo passo in auto da una a tre ore al massimo durante i giorni della settimana, mentre prima erano quattro tutti i giorni. E quindi mi arrabbio di meno per la frustrazione di perdere tempo da vivere dietro al volante. Questo è solo un esempio, in generale non cambierò mai idea su cose che considero assurde nel vivere di qui, ma ho imparato a modificare le mie abitudini per farmi meno male.
5) Trovare l’ago nel pagliaio e soffermarsi a guardarlo spesso. L’evoluzione più hard core del famoso mezzopienismo che caratterizza i bicchieri di moltissimi expat. Ovvero, trovare, scavare, estrarre, distillare se necessario, una cosa che in questo luogo dove mi tocca vivere, sia per me interessante. Che mi abbia sempre interessato anzi, ma che solo qua finalmente posso fare, di modo da apprezzarla nella sua novità e di non poterla paragonare a quel che facevo dove abitavo prima. Nel mio caso, non sono arrivata io a cotanta illuminazione, bensì mio marito che conoscendomi bene ha saputo trovare qui a Houston quello che ho sempre desiderato fare ma non ho mai avuto l’occasione: i corsi di scrittura creativa, qui tenuti dal dipartimento dell’Università dedicato a chi non è studente. Dieci giovedì sera in cui lui si è organizzato per tornare dal lavoro prima e star con le bambine, mentre io mi ritrovavo per 150 minuti a imparare tecniche e discutere di prosa, scritta dagli altri partecipanti e da me stessa, sotto la guida di un professore di scrittura creativa nel corso universitario regolare diurno. Dieci appuntamenti che hanno dato un nuovo ritmo alle mie settimane, con l’impegno di leggere e analizzare i lavori degli altri, di scrivere il mio: una nicchia spazio temporale in cui assorbirmi, nella quale di colpo l’asfalto rattoppato giornaliero, la puzza di fogna dopo i temporali, la gente che spara e il latte che sa di acqua non esistono temporaneamente più.
6) Relativizzare. La mia prima figlia dormiva pochissimo. Io e un’altra mia amica con figlia non dormiente ci ripetevamo a vicenda, con le occhiaie sempre più nere, NON SARÀ COSÃŒ PER SEMPRE. Ci sono solo voluti quattro anni, ma adesso otto ore di fila, mia figlia e la sua, le dormono. Da qualche settimana quando mi inizia a salire lo sconforto, mi dico che sappiamo da prima di partire che questa non è la nostra destinazione finale e mi ripeto lo stesso mantra che mi ha accompagnato notte dopo notte fino ad un anno fa. Contemporaneamente ho anche imparato a relativizzare il mio disagio per questo luogo. Okay, a me non piace, ma a me. Perché la paragono a come erano le città dove vivevo prima, nella fase della vita in cui sono. Fossi qua non madre, non avrei il problema di non riuscire a trovare una babysitter che parli le lingue delle mie figlie, di arrivare alle otto di sera sempre distrutta di fatica perché oltre a star dietro a loro e alla casa ci sono le infinite guidate, ma me ne andrei a teatro e al Sundance cinema. Fossi qua studentessa penserei che il Rice campus è una meraviglia di luogo in cui studiare e al village è pieno di posti fighi per l’apertivo. E anche se mi ci vorrebbe comunque un sacco di tempo a spostarmi in auto, nessuno mi griderebbe nelle orecchie mammaaaaa andiamo al parco giochi?? Fossi qua con figli come sono, ma venendo da una situazione difficile, non vedrei quello che manca loro stando qui, ma quello che hanno in più stando qui. Per far altri esempi, a me non ha mai interessato vivere in una casa indipendente, avere il giardino che odio i topi gli insetti e ho il pollice nero, mi stufo dopo due minuti nei centri commerciali mentre passerei un’ora in edicola, non ho mai avuto la curiosità di far parte di clubs. Ma a chi queste cose piacciono, sicuramente trova belle le zone di Sugarland, Woodlands, Heights, dove moltissimi expat vivono e si trovano bene ed hanno ottime scuole internazionali a portata di mano, un sacco di attività social a disposizione per conoscersi e passare il tempo. Insomma, Houston non va bene per me, non è che non possa andar bene a nessuno. Ed è bene che me lo ricordi ogni tanto che il mio malessere è comprensibile, ma è pur sempre un problema di lusso.
Tra poco partiamo in tre per l’Europa, torneremo in cinque (mio marito ci raggiungerà un po’ prima del parto). E forse al ritorno l’appartamento foderato di moquette, diventando testimone dei primi mesi di vita di una nuova creaturina in famiglia, troverà finalmente il suo posto tra quelle che sono state fino ad oggi le nostre case. In attesa di un nuovo spostamento che spero mi sarà più congeniale.
Update di fine estate. Per motivi editoriali questo post sarà pubblicato a settembre. Rileggendolo ora dopo quasi tre mesi passati prima a casa dei miei, poi nella zona francese dove ho abitato per cinque anni e sono nate le mie bimbe, e dove siamo tornati per far nascere il nostro nuovo piccolo di casa, ed infine nella nostra Varsavia, mi rendo conto che dovrò ricominicare da capo questo percorso interiore. Essere in Europa e vivere le mie vecchie vite, di figlia in Italia, di neomadre in Francia, di amica e di moglie a Varsavia è stato ossigeno per l’anima, sono stata nuovamente me stessa senza sforzo, ho nuovamente vissuto ogni giorno a pieno, anche i giorni brutti che ci sono stati non mi hanno schiacciato come succede a Houston, dove alla fine tento di anestetizzare in una routine robotica la forza dei miei pensieri e dei miei sentimenti.
Caro Dio Minore degli Expat, è vero che siamo fortunati e non ci manca nulla, ma se ti avanza una chance di mandarci altrove, per favore ricordati di me.
Valentina, Houston
Ha collaborato con Amiche di Fuso da luglio 2014 a giugno 2018
Come ti capisco Valentina, io sono stata 5 anni a Malta per lavoro, e l’ho detestata dal primo minuto, mi sentivo esiliata come Napoleone a Sant’Elena su quel piccolo scoglio! Ammiro la tua determinazione a cercare un nuovo equilibrio, io l’ho ritrovato solo quando finalmente mi hanno assegnata in un nuovo paese!
anche io so che alla fine staro’ veramente bene solo quando me ne andro’ da qui…ma nel frattempo sto davvero cercando di non logorarmi perche’ alla fine ogni giorno di vita non torna mai indietro!
Post molto bello, grazie per averlo scritto. Capisco molto bene la sensazione che ho vissuto anche io (anche se in contesto molto diverso dal tuo). A volte sento la gente in Italia dire che ovviamente una volta che si e’ expat sono tutte rose e fiori, e spesso non lo sono; non puoi sapere in anticipo se un posto ti piacera’, se troverai amici (e si sa quanto la solitudine pesi lontano da casa) o se troverai delle attivita’ che ti piace fare. Pero’ e’ giusto affrontare la situazione come hai fatto tu, bravissima!
no infatti, le cose pratiche si possono prevedere, trovare amici e’ sempre un colpo di fortuna, a un metro o a migliaia di km da casa…
Ciao, mi è piaciuto leggere il tuo post e capire come poteva essere la nostra vita a Houston con i figli…..a me Houston ( pur nelle sue bruttezze e piattezza) è piaciuta subito, ma eravamo appena sposati e kids free, e come dici tu, a fare aperitivi al Rice o andare al Sundance son bravi tutti senza marmocchi…….tieni duro, io da Houston son passata a Torino che mi ha accolto un po’ freddamente ma che ho lasciato con la lacrima, adesso in questa Brescia che mi piace abbastanza, ma mi sta un po’ stretta, chiudo gli occhi e sogno i colori autunnali del Valentino che si rispecchiano nel Po……forza!! Se vuoi, ti posso mettere in contatto con amiche Italiane con bimbi che abitano a Houston. ciao!
Bello questo post, vero e sincero, che mostra anche i lati negativi dell’espatrio, troppo spesso taciuti o sottovalutati.
Hai veramente una grande forza d’animo e sono certa che riuscirai a trovare un modo per vivere bene, in attesa della prossima destinazione!!!
Ciao Valentina, ho letto il tuo post ripubblicato oggi in quanto incluso nelle “emozioni lunghe un anno” e mi ci sono rivista tanto. Anche io vivo negli Usa, a Long Island NY, e anche io faccio molta, molta fatica (per usare un eufemismo) ad accettare quello che mi circonda. Purtroppo il mio shock culturale dura da molto più’ di qualche mese e a tratti lo sento insostenibile, come in questo periodo per esempio; se potessi infatti prenderei il primo aereo e tornerei a casa. Grazie per aver condiviso le tue sensazioni ed esperienze, soprattutto perché sei tra le poche che ha sfatato questo mito che vivere all’estero sia sempre una figata, soprattutto vivere in Usa. Ciao!
Ciao ragazze!
Io vivo da tre anni in Brasile, mio marito é di qui. Da Salvador, dove vive la sua famiglia, cittá animata ma violenta, sporca e caótica, ci siamo spostati da due anni a Morro di São Paulo, su un’isola tropicale, dove non ci sono macchine, il paesaggio é paradisÃaco e la violenza quasi non existe..ma ahime, c’é anche una sola strada, solo spiaggia, nessun evento culturale..nostra figlia 4 mesi e per ora é bello poterla crescere in libertá, peró si deve contare che il sistema do salute pubblico pur tentando di essere efficiente, é lento, e affidarsi ai privati costosissimo.
Perché il Brasile? PerchÄ— mio marito é brasiliano e all’ época stavo lottando con la frustrante situazione laborativa italiana, qui ho sempre lavorato in reception e come restauratrice, affittiamo una casa e abbiamo una figlia, tutti ció in Itália sarebbe stato difficile per la mancanza di opportunitá e stabilitá. Ma l’Europa mi manca tanto, mi mancano famiglia e amici, luoghi, tendenze, la cultura e un’infinità di altre cose, il Brasile mi infastidisce ormai, il modo di fare della gente, l’indifferenza ambientale, il divertimento alcoólico, insomma, quando si vuole andare via, tutto é insoppottabile, meno l’idea di cambiare.
Ma per i costi del ritorno e per stabilirci dall’altra parte dell’oceano aspettermo di essere finanziarimente sólidi, sebvene il salario sia poco e il cambio sia assassino. Nel frattempo approfitto del bello che ci circonda fazendo spallucce a ció che non funziona, amando la mia famiglia e essendo felice di fare 200 m ed essere in spiaggia, avere la foresta fuori dal balcone e sognando con le cittã europee, la mia Trieste e nuove avventure..lontano da qui.